Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia. 

Famiglia Iambrenghi

a cura di Fabio Iambrenghi  

Arma: d’azzurro, alla fascia diminuita di rosso, accompagnata in capo da un’aquila sorante di nero fissante il sole nascente di rosso e in punta da un leone d’argento sostenuto da una riviera del medesimo e sormontato da due stelle di sei punte pure del medesimo.


Stemma famiglia Iambrenghi

Il casato Iambrenghi trae la sua origine dalla Terra di San Sossio, Casale dell’antichissima Diocesi di Trevico, strettamente legato al capoluogo Vico, con cui condivise la soggezione alla signoria dei Consalvo e quindi, per molti secoli, dei Loffredo. L’organizzazione del territorio diocesano trevicano rispecchia infatti l’uso longobardo delle guaite, una sorta di unione amministrativa e funzionale di più centri abitati specializzati: così il centro antico di Vico costituiva l’elemento simbolico e identitario, ospitando la Cattedrale dell’Assunta, la Terra di Castello era il centro amministrativo, essendovi ubicato il palazzo vescovile, la Terra di San Sossio, praticamente unita a quella di San Nicola, ospitava, con quella, gran parte della popolazione, essendo sorta sul sito dove sgorgavano le principali fonti di acqua potabile. L’importanza del territorio, già dall’antichità, era legata alla presenza dei principali tratturi attraverso i quali avveniva il passaggio stagionale delle greggi transumanti dall’Abruzzo alla Capitanata, e allo sfruttamento dei rigogliosi boschi.


San Sossio Baronia (AV) ante 1930

Un territorio, quello della valle dell’Ufita, purtroppo anche molto esposto ai cataclismi tettonici che con continuità negli ultimi tre secoli, e segnatamente nel 1732, 1930 e 1980, ne hanno raso al suolo i principali centri abitati, cancellandone gran parte delle testimonianze storiche, archivistiche, artistiche e materiali.
È a causa di questi avvenimenti, oltre al fatto che lo spoglio dei documenti è a tutt’oggi largamente incompleto, che la prima attestazione del cognome finora rinvenuta nelle carte d’archivio si ha solo nella prima metà del ‘500: dobbiamo infatti parlare, per il periodo precedente, non tanto di non ricorrenza del cognome Iambrenghi nei documenti, quanto di assenza pressoché totale di documenti per l’intero territorio della diocesi Trevicana. Qualche indizio sull’origine della famiglia può essere comunque desunto da un’analisi onomastica del cognome e dell’evoluzione della sua forma nei documenti dei secc. XVI e XVII.
Se infatti, dopo il trasferimento della dimora della famiglia a Candela, in Capitanata, la forma prevalente del cognome è quella attuale Iambrenghi
(1), con qualche sporadica sopravvivenza della forma Iambrenga, in tutti i protocolli notarili dell’Archivio di Stato di Avellino, afferenti all’area e al periodo Sossiano, si ha l’uso esclusivo della forma Iambrenga (per lo più scritta Yambrenga), alternata nei documenti più antichi (e anche all’interno dello stesso documento) con la forma Iambrenda, che sembrerebbe quindi l’originaria. Iambrenda può essere interpretato come una volgarizzazione in area meridionale dell’antico nome germanico, e quindi Longobardo, Hambranth, altrove latinizzato in Iamprandus(2). La formazione del cognome Iambrenda da un patronimico Hambranth longobardo e molto presto scomparso dall’uso e quindi incomprensibile ai più, attesta di per sé una cognomizzazione molto precoce, confermata peraltro dal fatto che, al suo apparire negli atti, la famiglia risulta già ben affermata socialmente ed economicamente. Nel corso del XVI sec. ricorrono negli atti il notaio Cesare, ad oggi capostipite della linea genealogica documentata giunta fino a noi, accreditato di un patrimonio fruttifero di cinquemila ducati, i Revv. don Antonio e don Lorenzo, Sacerdoti partecipanti della Chiesa Madre di S. Maria Assunta di San Sossio, i Magnifici messeri Leonardo e Paolo, erarii dell’Ill.mo Marchese di Trevico rispettivamente per gli anni 1563-’64 e 1566-’67, infine gli Eccellenti Oto (si noti il permanere di etimi longobardi nell’area) e Poetio, presenti quali testimoni letterati negli atti degli anni ’60 e ’70.
Morto il notaio Cesare in età ancora giovane, e scomparsi dagli atti anche gli altri membri della famiglia sopra nominati, il suo patrimonio ereditario fu amministrato, nella minore età dei figli maschi Paolo e Marco Emilio, dalla figlia maggiore Claudia, sposata con una dote di 400 ducati a Federico Adnolfo di Vallata. Una volta emancipati, il figlio maggiore Paolo morirà in giovane età, da poco sposato e con un unico figlio, mentre il minore Marco Emilio, divenuto nel frattempo sacerdote col nome di don Camillo
(3) acquisirà la qualifica di prius in nomine e amministrerà con grande sagacia il patrimonio di famiglia, garantendo tra l’altro gli studi al nipote Francesco, che diverrà Utriusque Iuris Doctor negli anni ’40 del XVII sec. (4).
A questi anni risale la prima attestazione dell’arme di famiglia, la cui scoperta devo alla segnalazione di Pasquale Cavallo, compresa in un armoriale manoscritto di autore ignoto conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli
(5) e probabilmente da collegarsi con la presenza in Napoli di Francesco per gli studi presso il Collegio dei Dottori della capitale.


San Sossio, ruderi della chiesa della SS. Annunciazione

Lo stesso Rev. don Camillo istituì nel 1637 un beneficio legato alla cappella di iure patronato della famiglia, da lui stesso eretta nella chiesa della SS. Annunciazione di San Sossio sotto il titolo di Santa Maria della Sanità (6). La cappella risultava ancora de jure patronatus delli Iambrenga, ma sotto il titolo di Santa Lucia, nel 1745 (7) ed è stata completamente distrutta dal sisma del 1930 con l’intera chiesa della SS. Annunciazione.

L’U.I.D. Francesco contrasse matrimonio con donna Anna Montanarella della Terra di Candela in Capitanata e, all’indomani della grande peste di Napoli del 1656, in seguito alla morte del suocero senza figli maschi, si trasferì con la moglie e il figlio Paolo a Candela, per amministrare le proprietà terriere di questi, allora incentrate sulla masseria di campo detta Giardino, che rimarrà nei secoli seguenti la principale tenuta agraria della famiglia. La masseria Giardino, secondo la descrizione fattane nel Catasto Onciario di Candela, consisteva in due torri, con scaraiazzi, magazzini, camere, chiesa e stalle, con 4 versure (4,938 ettari) di vigna maritata murata (il giardino) e 228 versure (281,466 ettari) di terreni accorpati a varia coltura e a pascolo; essa era gestita direttamente dalla famiglia per mezzo di un amministratore e trenta lavoranti residenti, che potevano contare su un ragguardevole patrimonio zootecnico.


Candela, Masseria Giardino

Si legge nella visita ad limina del Vescovo di Ascoli del 1785 (8), che nell’agro Candelano esistevano, per comodo dei contadini, due edicole officiate nei giorni festivi dal clero di Candela, una nella masseria Canestrello dei Principi Doria, l’altra, nel predio vulgo dictum il Giardino, Gentis Iambrenghi eiusdem oppidi.

L’acquisizione del grande palazzo di Candela (9) si deve anche all’attenta politica matrimoniale dello stesso Francesco, che sposò Anna Montanarella, erede della nobile famiglia Basilico di Candela, e della stessa donna Anna, promotrice, non senza contrasti, nel 1675 del matrimonio del figlio Paolo con Giulia Bonadies, a sua volta erede di un altro ramo dei Basilico.
Il palazzo sorge sul fianco della collina di San Tommaso, a ridosso delle mura della Cittadella, la porzione più antica dell’abitato di Candela, appena al disopra della Chiesa Matrice di Santa Maria della Purificazione.


Candela, Palazzo Iambrenghi già Basilico

La fabbrica, di tre piani complessivi addossati al fianco della collina, ha due ingressi principali, uno sul prospetto di monte, sormontato dallo stemma Basilico, l’altro, monumentale, sul prospetto di valle, con portale bugnato in pietra e imposte ferrate imperniate nella viva roccia. Quest’ultimo è preceduto dalla bella loggia di Luca Basilico, sorta di podio porticato che si apre sulla valle con tre fornici a tutto sesto sostenuti da colonne in pietra e con belle cornici e balaustre in pietra scolpita: il cornicione della loggia reca incisa la memoria di fondazione (1607) a caratteri capitali.
Dalla rampa selciata della loggia, si accede direttamente nell’atrio, coperto da un’ampia volta lunettata con peducci in pietra di squisito disegno rinascimentale, che disimpegna gli ambienti di servizio, lo scalone e, attraverso una rampa selciata, i profondi scantinati, scavati nella roccia fin sotto la strada superiore.
Attraverso lo scalone di pietra, si raggiunge il primo piano nobile, occupato dalle sale di residenza, ovvero da una serie di anticamere e camere, per lo più voltate, che si dipartono in duplice infilata dai due lati corti di un grande salone con soffitto in legno filologicamente ripristinato nelle sue decorazioni a rosette.
L’appartamento del secondo piano nobile, che fu nell’epoca d’oro del palazzo l’appartamento di rappresentanza, è oggi accessibile dall’ingresso posteriore. Di esso rimangono il grande salone d’onore e l’anticamera della cappella. Il primo, oggi diviso in due ambienti di cui uno solo conserva l’originale soffitto a piccoli cassettoni decorati a rosette e losanghe dipinte e indorate, ha una ricca dotazione di porte con mostre e fastigi intagliati e indorati; sulla parete di fondo, un monumentale portale cela quanto resta della cappella privata dedicata alla Madonna del Rosario, nominata nel testamento di don Franco Iambrenghi nel 1769
(10). L’anticamera della cappella, oggi camera da letto, conserva miracolosamente intatto un magnifico soffitto a profondissimi lacunari dipinti e indorati di puro gusto manieristico.


Cappella privata dedicata alla Madonna del Rosario


Anticamera cappella privata dedicata alla Madonna del Rosario, soffitto

Nel 1698 il palazzo fu teatro di un avvenimento rimarchevole: la morte dell’avvocato, giureconsulto e filosofo Napoletano Francesco D’Andrea, grande animatore della vita culturale del viceregno spagnolo e paladino dei diritti del ceto civile, delle cui aspirazioni di ascesa politico economica fu per decenni interprete e guida(11). Nell’Archivio parrocchiale di Santa Maria della Purificazione di Candela si conserva la memoria originale della morte del D’Andrea(12): Anno Domini 1698, die 11 mensis septembris, dominus Franciscus D’Andrea Neapolitanus, ex Regius Consiliarius, in comunione Sanctae Matris Ecclesiae, in domo Antoniae Montanarellae Terrae Candelae animam deo redidit, cuius corpus sepultus est in maiore Ecclesia Terrae Candelae et in cappella Santissimi Rosarii. Sacramenta Ecclesiae sanctae poenitentiae, eucharistiae et extremae unctionis accepit in civitate Melfiae, adimplevitque paschali praecepto in hoc anno in hac Terra Candelae. Et in fidem Venutolus Archipresbiter.
La notizia della morte in Candela di Francesco D’Andrea, tra l’altro avvenuta l’undici e non il dieci ottobre come finora creduto dagli studiosi sulla scorta del Giustiniani
(13), e la sua sepoltura nella tomba dei signori Iambrenghi, già riportata dal sacerdote Adriano Bari nelle sue Notizie storiche di Candela(14), nonché la tradizione popolare che voleva il D’Andrea ospite in casa Iambrenghi, sono pienamente confermate da questo documento. Dal citato testamento di Franco di Paolo Iambrenghi sappiamo infatti che la cappella del SS. Rosario nella Chiesa Matrice era cappella gentilizia della famiglia Iambrenghi.

Il primogenito di Paolo Iambrenghi, Domenico Antonio, seguì il nonno nella carriera giuridica(15): egli fu governatore e giudice a Calitri, poi si trasferì nella città di Minervino, dove, accasatosi con Silvia Mosca, acquistò un palazzo alla Scesciola, in via Santa Maria di Costantinopoli, e una grande masseria di campo sulla Murgia, lungo la strada per Andria, uscendo quindi dalla comunione patrimoniale con i fratelli e fondando quindi un ramo indipendente della famiglia che proseguì poi con i tre figli: l’U.I.D. Nicolò, don Paolo e il Rev. Don Patrizio, per estinguersi poi nel corso del sec. XIX nella nobile famiglia Caputi di Ruvo.

Il Rev. Don Patrizio, che risiedette per gran parte della sua vita con gli zii paterni nel palazzo di Candela, dove fu Canonico della Chiesa Madre di Santa Maria della Purificazione e rettore della cappella della Madonna del SS. Rosario, di Iure patronato della famiglia, nella sua vecchiaia, ormai ritiratosi a Minervino, il 21 agosto 1789 dette mandato al Rev. don Francesco Iambrenghi suo cugino di consegnare alla Chiesa di Candela un calice del valore di 100 ducati da lui fatto lavorare in Napoli, affinché il clero candelese se ne potesse servire nei giorni solenni nel sacrificio della messa, ricordando di pregare il Signore per il benefattore(16). Questa bella opera di argento sbalzato è conservata nella Chiesa Matrice di Candela e reca, sotto il piedistallo, l’iscrizione dedicatoria: A DIVOZIONE DEL REVERENDO DON PATRIZIO IAMBRENGHI accompagnata dall’arme gentilizia dello stesso.


Calice Iambrenghi con l’arme di famiglia del sec. XVIII

L’immagine del calice Iambrenghi con l’arme di famiglia del sec. XVIII mi offre il destro per parlare di due altri esemplari araldici coevi contenuti nell’armoriale Montefuscoli (17), recentemente segnalatimi da Pasquale Cavallo, che ringrazio di cuore.
Il primo esemplare, anche per la forma arcaica del cognome (Imbrenga), credo possa dipendere direttamente dall’arme descritta nell’armoriale manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli del sec. XVII; il secondo è talmente approssimativo e scorretto, anche nell’indicazione del cognome (Imbrenghe), da far ritenere che si tratti di un abbozzo derivato da una errata interpretazione forse di un sigillo poco leggibile, piuttosto che di una brisura araldica usata da un ramo collaterale della famiglia.

Il secondogenito di Paolo, Giuseppe Francesco, fu sacerdote, Canonico partecipante della chiesa di Santa Maria della Purificazione di Candela e rettore della cappella di famiglia prima del nipote Rev. don Patrizio. Dopo la partenza di Domenico Antonio da Candela, amministrò i beni di famiglia con la madre durante la minore età di Franco e gli studi di Geronimo. A lui si deve tra l’altro l’acquisto dal barone Ciaburro della masseria Canestrello piccola, altrimenti detta la Puzzaccara, nell’agro candelese verso l’Ofanto, con fabbriche, mezzana di pascolo e circa 400 versure (494 ettari) di terreni tutti accorpati e a varia coltura, che venne poi, solitamente, ceduta in affitto. A questa, il penultimo figlio di Paolo, l’U.I.D. Geronimo(18), aggiunse in seguito la contigua masseria Barbaschito, proveniente dall’eredità di don Consalvo Santese di Rocchetta, suo suocero, posta ad occidente della precedente, sempre lungo il corso dell’Ofanto e consistente in circa 23 versure (28 ettari) di mezzana di pascolo salda e 148 versure (180 ettari) di terreni arativi, con stalla, tettoia porticata e pozzo. Completavano la proprietà ulteriori 57 versure (70,366 ettari) di terreni arativi divisi in più appezzamenti situati in diversi vocaboli dell’agro candelese, alcune grotte per il ricovero dei suini, oltre a varie taverne dentro l’abitato di Candela con stalle e magazzini per le derrate.
Chi però dedicò tutta la sua vita all’amministrazione del patrimonio familiare fu Franco, figlio minore di don Paolo, il quale fu sempre in comunione con i fratelli, il Rev. Don Giuseppe Francesco e l’U.I.D. Geronimo. Dopo la morte di questi, rimasto scapolo con due figli naturali, fu tutore dei figli minori di Geronimo, e rimase tutta la vita amministratore dell’azienda agricola familiare. Il Perifano
(19) tratteggia con parole di grande ammirazione questa rara figura di benefattore illuminato ed attento: In vita, Gianfrancesco(20) Iambrenghi fu benefattore generoso del suo paese, benefattore che mirò alla perpetuità del beneficio, perciocché in esso studiavasi conservarne gelosamente la sorgente. Egli non largheggiava in donativi, ma soccorreva a tutta inchiesta di onorato industrioso; e quando cessava il bisogno a soccorrere, cessava dal beneficare. E così il beneficare di Iambrenghi era illuminata teoria. Ciascun misero agricoltore ricorreva a lui per prestanze. Egli accorreva col suo danaro, senza mai togliere il menomo compensamento. La somma era restituita e, se poi si ridomandava, egli mai denegavasi. Non vi fu il caso in che avesse fatto il mal viso al beneficato infelice. Addoppiava, triplicava l'imprestito, ma quella somma amava riavere al solo fine di perpetuare il beneficio. Detestava l'accattone, l'ozioso, l'ingrato. Però non molestava chi non rimetteva la somma tolta a lui chiesta. Ma si negava una seconda fiata, laddove l'ingratitudine o la dissipazione, e non la sventura, toglieva di mano al godente il peculio tolto in sussidio.
Don Franco, col suo ultimo testamento
(21), legò anche la sua memoria all’istituzione di un Monte dotale per le fanciulle povere di Candela e non mancò di assicurare la continuità della cura e delle celebrazioni nelle cappelle di iure patronato, e con esse il perpetuo ricordo e intercessione per tutti i defunti della famiglia, di cui tenne altissima considerazione: Primo ordino e comando che, subbito secuta sarà la mia morte, si facesse dal mio erede un capitale che possa fruttare ogni anno docati trentuno e grana venti, de’ quali voglio che se ne celebrino tre messe basse la settimana, due nell’altare del Santissimo Rosario, cappella gentilizia di mia casa, che sta situato dentro la Madrice Chiesa di detta Terra, e l’altra in giorno di mercordì nell’altare che sta dentro il palazzo di casa mia, e, qualora detto altare e cappella venisse sospeso, voglio che si celebri nell’altare e cappella del Santissimo Rosario, alla ragione di carlini due la messa, e questo mondo durante, et in perpetuum, applicando dette messe tanto per l’anima mia che per gli miei genitori e tutti gli altri della fameglia Iambrenghi, ed il cappellano che dovrà soddisfare e celebrare dette messe sia ed abbia da essere della fameglia e discendenza del mio erede don Giuseppe Clemente […].

Don Giuseppe Clemente, erede unico morale e materiale della famiglia, sposò in prime nozze Cecilia Mazza di Ariano, dalla quale ebbe Geronimo, primogenito, e Marianna. Sposò poi in seconde nozze Anna Antonia Alemagna, rampolla di un’antica famiglia di avvocati e proprietari terrieri dello Stato di San Severino(22). Nel momento di iniziare una nuova vita, egli volle accogliere la sposa in un palazzo rinnovato ed arricchito nell’appartamento nobile. Ed è così che, sotto i fastosi soffitti seicenteschi del secondo piano nobile del palazzo candelese, venne creata quella ricca decorazione in legno dipinto e dorato che tanto colpirà il giovane Romolo Caggese in occasione della sua visita a Candela dell’agosto 1905 (23), per il contrasto stridente con il deplorevole stato di conservazione dell’immobile.
Ancora oggi, benché il salone sia stato diviso in due ambienti e siano andate perdute le cornici di raccordo, si possono ammirare le belle porte, severe nella loro livrea verde muschio, con i rincassi sottolineati e ravvivati da cornici modanate e indorate a lamina su fondo rosso, su cui campeggiano i monogrammi coronati DGCI (Don Giuseppe Clemente Iambrenghi) e gli intagli lignei indorati a motivi floreali. Gli episodi migliori della decorazione sono le monumentali imposte che davano accesso alla cappella, di linee estremamente pulite e classiche, probabilmente perché foggiate sulla grande cornice tardo rinascimentale preesistente
(24), e le porte d’accesso ai locali principali, dove l’intaglio si approfondisce acquistando espressività senza perdere di grazia, e raggiungendo così notevoli vette di eleganza.

Candela, palazzo Iambrenghi, porte con monogrammi coronati DGCI (Don Giuseppe Clemente Iambrenghi)

Sarà questo, però, l’ultimo intervento qualificante operato sul palazzo: i lunghi anni della sua decadenza saranno da qui innanzi lo specchio della crisi inarrestabile di tutta una classe sociale, e di un sistema economico espressione di quella, non più in sintonia con i tempi nuovi ed esposta irrimediabilmente agli enormi sconvolgimenti politici, economici e sociali che si stavano preparando. Fu infatti l’incertezza dei tempi, che si tradusse anche in incertezza della resa dei raccolti, a far sì che la famiglia, Giuseppe Clemente e dopo di lui i figli Geronimo e Luigi, si orientasse sempre più sulla sistematica cessione in affitto delle masserie(25), limitando sempre più la porzione di territori gestiti direttamente. Questa scelta, condivisa da altre famiglie primarie del paese, portava però ad una diminuzione delle rendite, a fronte di una maggiore sicurezza delle stesse, e favoriva così l’emergere di una nuova classe imprenditoriale, spesso proveniente dal ceto popolare, che, adottando nella gestione delle terre strategie commerciali molto spregiudicate, si assicurava una buona disponibilità di contante da far fruttare con l’esercizio dell’usura a scapito degli stessi locatori, i quali, per mantenere uno stile di vita consono al loro stato, vedranno man mano erodere le loro proprietà e rendite.
Fu innanzitutto l’epoca napoleonica, con tutto il suo portato di scorrerie di eserciti e tensioni sociali, a dare i primi scossoni alla monotona vita della provincia borbonica. Un’eloquente testimonianza del clima di incertezza del futuro introdotto dai convulsi avvenimenti del decennio francese anche in Candela e nella stessa nostra famiglia è offerto dal diario tenuto dal 1799 al 1829 dagli Ascolani Giuseppe Antonio ed Ermenegildo Tedeschi, recentemente ripubblicato da Claudio Grenzi Editore in una bella edizione critica a cura di Antonio Ventura
(26): annota Ermenegildo Tedeschi al 28 febbraio 1807: A’ 28 detto giorno di sabbato Don Geronimo Iambrenghi è caduto in mano di tre ladri nel vallone di Pietralonga, tornando da Rocchetta in Candela. Essi l’han portato secoloro e la Domenica han mandato in detta Candela un ricatto di ducati 60000 (27). Si è spedita buona summa e molto argento lavorato, ma don Geronimo non si vede, né se ne sa notizia son nove giorni. Il doloroso lutto in dilui casa, in Candela e in Ascoli è inesprimibile. E comunemente si dice non essere giammai accaduta cosa simile. E ancora 13 giorni dopo: Il venerdì a sera, 13 marzo alle ore 2 ½ si rimpatria in Candela Don Geronimo Iambrenghi. Miracolo! Sapendosi la storia si scriverà. Credo che l’episodio, peraltro completamente rimosso dalla memoria familiare, abbia comunque segnato profondamente l’esistenza di Geronimo, essendo accaduto solo pochi mesi dopo la morte di suo padre, e quando già si stava avviando un’azione giudiziaria per l’interpretazione delle volontà testamentarie di questi, che avrebbe portato ad un estremo frazionamento della proprietà tra i vari eredi.
Poco da dire ci rimane degli ultimi due secoli di storia, con l’erosione progressiva delle proprietà terriere e il conseguente ritorno dei principali esponenti della famiglia agli studi universitari e all’esercizio di onorevoli professioni e di cariche pubbliche: Vincenzo di Giuseppe, primo nipote di Geronimo, si laureò in Medicina all’Università di Napoli nel 1853, ma morì quel medesimo anno. Il fratello Pietro, laureato anche lui, esercitò la professione di farmacista in Candela per molti anni, sposando Consiglia Irace, figlia del dottore fisico Luca, di antica famiglia originaria di Prajano.


Vincenzo Iambrenghi


Pietro Iambrenghi

Dei suoi figli, il primogenito Giuseppe fu sacerdote, Canonico partecipante della chiesa di Santa Maria della Purificazione di Candela, e il penultimo, Antonio, la carriera militare nei RR. Carabinieri interrotta da un incidente durante i moti agrari del 1919, sposò Augusta, figlia del dott. Pasquale Lucentini e di donna Clotilde Argentieri Tebaldeschi di Norcia e trasferì la famiglia, prima temporaneamente, poi stabilmente dal 1924, in quella città, di cui il secondo figlio Italo, Professore di Scienze Matematiche, è stato sindaco dal 1960 al 1964 e amministratore per quarant’anni e dove è l’attuale residenza degli ultimi eredi.


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________________
Note:
(1) -
Lo stesso Francesco che si trasferì da San Sossio a Candela viene detto de Iambrenga nei documenti di San Sossio e Iambrenghi in quelli di Candela.
(2) -
Il nome nella forma latinizzata è attestato ad es. nel Codex diplomaticus Cavensis, Vol. 1, documento 54, c. 68. Per l’etimologia del nome, si veda: Peirce G., Le origini preistoriche dell’onomastica italiana, e-book Smashwords.
(3) - Negli atti è detto Rev. Don Camillo, seu Marco Emilio: era probabilmente uso dei canonici in quell’epoca, testimoniato anche in altri casi, mutare nome all’ordinazione sacra, all’uso degli Ordini Regolari.
(4) -
Il primo documento in cui Don Francesco appare col titolo di U.I.D. è: Archivio di Stato di Avellino, Notai Ariano, Busta 1404, Vol. 1644-1645, ff. 98 - 98v..
(5) -
Biblioteca Nazionale di Napoli, Sezione manoscritti e rari, collocazione: XVII.25, segnalazione e foto di Pasquale Cavallo, curatore del sito web www.nobili-napoletani.it .
(6) - Archivio di Stato di Avellino, Notai Ariano, Busta 633, Vol. 1648-1649, ff. 48v. – 50.

(7) -
Archivio Segreto Vaticano, Congregazione del Concilio, Relat. Dioc. (Visite ad limina), 818 A, f. 289r.
(8) -
Archivio Segreto Vaticano, Congregazione del Concilio, Relat. Dioc. (Visite ad limina), 81 B, f. 87r.
(9) -
Iambrenghi F., Il palazzo Iambrenghi di Candela, 2015 (disponibile in www.lulu.com).
(10) -
Sez. Arch. St. Lucera, Atti dei notai, Protocolli, Ser. I, Vol. 3031, Notaio Michelangelo Bascianello, cc. senza segnatura ed inserto, Candela, 1769, ottobre, 27, apertura del testamento del magnifico don Francesco Iambrenghi, rogato l’11ottobre 1769.
(11) - Per un inquadramento generale della figura del D’Andrea e per i riferimenti bibliografici si veda Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana di G. Treccani, Roma, 1981, ad vocem D’Andrea Francesco.
(12) - Archivio Capitolare di S. Maria della Purificazione di Candela, I libro dei morti, c. 31 v., atto 352.
(13) - Giustiniani Lorenzo, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, I, Napoli 1787
(14) - Bari sacerdote Adriano, Candela Notizie storiche, Tipografia Melfi e Joele, Napoli, 1912.
(15) - Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei dottori, contenitore 43, c. 38, anno 1702.
(16) - Sez. Arch. St. Lucera, Atti dei notai, Protocolli, Ser. II, Vol. 1239, Notaio Michele Ciampolillo, cc. 42 e ss.
(17)- Biblioteca Universitaria di Napoli, Imprese, ovvero stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed altri, Volume IV, parte 2a, c. 205, 1780 c.a.
(18) -  Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei dottori, contenitore 68, c. 146, anno 1730
(19) - Perifano Casimiro, Storia statistica di Candela, comunità numerata nel distretto di Bovino, Provincia di Capitanata, Napoli, Tip. Trani, 1846.
(20) -  Così nel testo, ma in realtà si tratta di Franco.
(21) - SASL, Atti dei notai, Protocolli, Ser. I, Vol. 3031, Notaio Michelangelo Bascianello, cc. senza segnatura ed inserto, Candela, 1769, ottobre, 27, apertura del testamento del magnifico don Francesco Iambrenghi, rogato l’11 ottobre 1769.
(22) - In Provincia di Salerno; in particolare gli Alemagna risiedevano nella borgata o casale Barbuti, nell’attuale Comune di Fisciano.
(23) - Caggese  Romolo, Foggia e la Capitanata, Claudio Grenzi editore, Foggia, 2008. L’edizione è ristampa anastatica dell’opera originale del 1910.
(24) - L’altare domestico già esisteva, come abbiamo visto, all’epoca di Franco Iambrenghi, che lo nomina nel suo testamento.
(25) - Nei protocolli notarili di Clemente Bascianelli presso la sez. di Archivio di Stato di Lucera, che coprono il lungo periodo dal 1793 al 1831, si trovano numerosi contratti di affitto delle masserie Giardino, Ciaburro e Santese, che qui non si riportano per brevità e perché esulanti dal presente argomento, ma il cui studio sarebbe di grande interesse per la conoscenza delle dinamiche economiche del periodo francese.
(26) - Giuseppe Antonio Tedeschi, Ermenegildo Tedeschi, Diario di Ascoli Satriano 1799-1829, a cura di Antonio Ventura,Claudio Grenzi Editore, Foggia, 2008.
(27) - Così nella trascrizione, ma la cifra penso sia da interpretare più credibilmente come 600,00.


Continua sul sesto volume in preparazione di "LA STORIA DIETRO GLI SCUDI"

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