
Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili
di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti
alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che
abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.
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Famiglia
d'Alessandro |
Le ceramiche
del duca Pasquale Maria d’Alessandro di Pescolanciano |
“Avevo circa dieci anni, quando
trovai nella biblioteca di famiglia tra i tanti faldoni impolverati la
fantasiosa ricetta del giurista Guido Panciroli, autore della
Raccolta breve d’alcune cose più segnalate ch’ebbero gli antichi. Opera
stimolante il mio sogno di produrre pregiata ceramica. Mi
s’impresse nella mente tale descrizione sulla porcellana: massa
di gesso, ovo trito, scorza di locuste marine con altre simili
cose che insieme strette si nasconde, da quello che le fa,
sottoterra designando il luogo ai suoi figlioli o nipoti, perché
ad altri non si rivela; dai quali dopo ottant’anni cavata fuori
se ne fanno vasi bellissimi dandoli di più diversi colori”.(1)
L’autore di tali note biografiche
fu il sesto duca di Pescolanciano, Pasquale Maria d’Alessandro, nobile
napoletano tradizionalista, illuminato ed industrioso.(2) |

© Duca Pasquale Maria d'Alessandro |
Il duca Pasquale nacque il 9 giugno del 1756 nell’avito
maniero di Pescolanciano sito in contado di Molise, progenie dei
coniugi Nicola Maria I° d’Alessandro ed Eleonora Castromediano
Limburgo Acquaviva d’Aragona. Ebbe i suoi natali in un periodo di
rinascita del mezzogiorno d’Italia, allorquando l’infante don Carlo
di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e di Elisabetta
Farnese, restaurò dopo duecentotrentatré anni l’autonomia del reame
di Napoli, cingendo la corona con il nome
Carlo VII (III)
(3).
Il succitato padre di don Pasquale d’Alessandro, duca Nicola, memore
della tradizione filo-francese del Casato, fu tra l’altro presente
in data 10 maggio 1734 al solenne ingresso dell’infante Carlo, il
quale attraversò il territorio napoletano senza trovare alcuno
ostacolo di sorta, nonostante i 25 mila soldati tedeschi posti a
presidio del viceregno di Napoli.
« La nobiltà andò ad incontrarlo a Porta Capuana, attraverso
la quale erano sempre passati i Re ed i conquistatori di Napoli,
e molto lentamente il corteo si mosse lungo via dei Tribunali:
prima venivano cavalli coperti di ricche gualdrappe, poi gli
scudieri del Principe su bei cavalli, poi il Principe che
cavalcava tra Santo Stefano ed il principe Corsini, seguiti da
cavalieri che gettavano denaro al popolo”
(4). |

© Napoli - Porta Capuana - qui fece il suo ingresso solenne re Carlo III
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Il
nuovo stato, fondato allora dal Borbone, raccolse subito
consensi dal popolo e dalla nobiltà, grazie a quella politica di
riforme (“rinnovamento napoletano”) voluta ed attuata dal nuovo
sovrano,volta a favorire le attività lavorative nei diversi
settori.
Si incentivò lo
sviluppo delle arti minori (porcellane, ceramiche, pietre dure,
tessuti e stoffe, arazzi), nonché dell’attività musicale (opera
buffa), dell’attività archeologica (scavi di Pompei ed
Ercolano). Fu innovato il piano urbanistico ed architettonico
della capitale (albergo dei poveri, reggia di Capodimonte e di
Portici e Caserta, il foro Carolino), si sostenne l’agricoltura,
il commercio interno e gli scambi di mercanzie. Nella capitale partenopea di questo regno “riformato”, pervenuta
in breve tempo al pari delle principali città d’Europa, divenuta mèta anche di
viaggiatori, poeti e personaggi del mondo culturale (dal Giannone al Vico, Carovita, Galiani etc.),
quivi crebbe il giovane Pasquale d’Alessandro.
Nel 1764, ancora adolescente, rimasto orfano del proprio
genitore, lo stesso fu avviato nel collegio dei Gesuiti in
Napoli.
Ebbe egli vivacità d’ingegno, nonché fu dotato in lettere e
matematica, mostrando spirito d’iniziativa e perfezione sin
dagli anni giovanili.
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© Stemma d'Alessandro |
Quanto sopra esposto fu ricordato, pure, nell’orazione funebre,
in occasione della di lui morte, recitata il 2 Gennaio 1817
dall’Arciprete Don Luigi M. Salvatore nella chiesa di Pescolanciano.
Fu annotato, per la circostanza, la benemerita figura del duca
Pasquale, che fin dalla sua gioventù
“(…) incominciò a divenire un
ottimo matematico, eccellente chimico, bravo filosofo”(5)
in un epoca
di tanto decantato “progresso culturale” sviluppato dai “deisti
inglesi” assieme agli “enciclopedisti francesi”. |
La sua formazione culturale fu quella tradizionale, basata sui
classici greco-latini e religiosi, sebbene fu aperto alla conoscenza della
nuova “religione della Ragione”, attraverso la lettura delle opere
del Galiani, del Genovesi o del
Filangeri.
A conferma di queste sue
innate attitudini agli studi e bramosità di apprendere, si rinviene,
anche in alcuni inventari del 1780 e 1795, un corposo elenco di
libri posseduti su diverse materie, quali: filosofia, matematica,
scienze naturali, economia ed altri argomenti formanti una ben
fornita biblioteca di opere di autori locali e stranieri. Il proprio
fratello secondogenito, Francesco Maria (1757-1836), educato al pari
di Pasquale, scelse, invece, di divenire cavaliere professo
dell’Ordine di Malta, entrandovi a far parte dall’anno 1795
(6),
confermando una consuetudine seguita dagli eredi cadetti del Casato
dei d’Alessandro.
L’impresa più importante del duca d’Alessandro fu la direzione
della “fabbrica di ceramiche”, da lui fondata e voluta nel suo
feudo. Iniziata probabilmente tra il 1783-84, ma suffragata da
rinvenuta documentazione certa (lettere di assunzione
maestranze, note spese sostenute, un piatto di portata datato)
del 1790.
A comprovare detta data si annovera il documento notarile del 13
giugno 1790, a firma del citato
Moccia, in cui si evince l’accordo stipulato tra il duca
Pasquale e l’Università di Chiauci, circa l’utilizzo della metà
delle acque (di spettanza comunale) del fiumicello denominato
“Luvienze”, confinante con i tenimenti ducali di Pescolanciano.
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© Napoli - via del Priorato - stemma dell'Ordine di Malta |
Alla
base di simile patto fu riportata la seguente motivazione:
“volendo a detto Ecc. Duca costruire una fabrica di Faenza…e poter
fare macinare colori ed ogn’altro occorrente per detta faenza per
mezzo de molinelli costruendi dal suddetto Ecc. Sig. Duca”
(7).
Fu, dunque, sulla
scia delle diverse iniziative artistiche, sorte nel Regno, già dal
tempo di don Carlo di Borbone, il quale intese così emulare i
progetti monumentali di Luigi XIV di Francia, che a suo tempo il
d’Alessandro (8)
prese spunto per realizzare la fabbrica sua di ceramiche, in
Pescolanciano. Del resto, il duca Pasquale, frequentando il palazzo
Reale di Napoli, molto vicino alla di lui dimora, fu alquanto aggiornato
sui gusti e le passioni di re Carlo per le porcellane. |

© Segrete Castello d'Alessandro
- deposito calchi della fabbrica |
Con una certa frequenza visitò pure le prime fornaci fatte costruire
“(…) nel Real Giardino presso il bastione di Santo Spirito”, nei
pressi del citato palazzo(9). |
Per realizzare quel progetto egli sostenne anche ingenti
spese(60.000 ducati) senza chiedere alcuna sovvenzione o sostegno al
governo, sebbene fosse vicino suddito e devoto alla regnante
dinastia Borbonica.
La tradizione orale
vuole la fornace ubicata nelle “segrete” del castello, forse
nell’area sottostante il mastio, seguendo quasi a modello la
bizzarra impresa dell’amico principe di Sangro di Sansevero. Si
ipotizza, tuttavia che la collocazione nel castello delle fornaci di
lavorazione della ceramica possa essere stata forse esterna ed
individuata presso il cortile detto di Sant’Antonio, come da
documento, datato 27 ottobre 1795, dell'Archivio d’Alessandro
relativo “all’Inventario del Palazzo Ducale”. |

© Segrete castello d'Alessandro, i calchi |
Nei
primi otto mesi del 1790, la fabbrica incontrò difficoltà a
decollare ed il duca subì una perdita di 1.000 ducati, a causa
dei fornaciai, inesperti nell’arte della ceramica.
Tra questi risulta tale Gabriele Castellano, ex
modellatore stampatore della fabbrica Reale di Caserta, al quale il
duca versò nel 1787 ducati 50 per una serie di modelli (tra cui “7 busti di figure, 8 di teste, 2 testoline, 24
bassettoni, 3 urne di una vasca per fontana con uno scoglio in mezzo
con 3 scorfani, è puttini, è due leoni per piedestallo della
medesima”), destinati ad abbellire il suo palazzo di Napoli. |

Zuppiera magnese
http://www.famigliadalessandro.it/ceramica.html
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Tra gli addetti “faenzari, pittori,
stampatori”, provenienti dall’area napoletana, sono documentati
i contratti con:
1.Giosuè Mariotti,
del 24 luglio 1790, 2. Andrea Mancini e Pietro Russo del 17 gennaio
1791, 3. Gaetano Scotta, Giovanni Caputo, Carlo Casolla, Gaetano
Mariotti ed il citato Mancini, del 22 marzo 1791(10).
Quest’organico, di provenienza locale e costato “più di un
migliaro-a detta del duca- di ducati”, fu però licenziato
tra il marzo ed aprile del 1791, in quanto composto non da
“persone oneste e laboriose”. Rimasero in servizio solo “un
tornante e due scultori per la terraglia e biscotto”, mentre
furono ricercate ed assoldate nuove maestranze, anche fuori del
Reame
(11).
Si interessò, alla ricerca di artigiani da occupare, l’agente del
duca, Gesualdo Mancini di Pescolanciano, residente in Venezia. |
A
quella data fu contattato e segnalato anche Germiniano Cozzi
(fabbricante veneto di terraglie) e successivamente, il 17 aprile,
altro agente segnalò la disponibilità del “fornante” Giovanni
Battista Poato di Trieste, rinomato nel settore sia della maiolica e
terraglia e sia della porcellana, costui accettò poi un accordo con
il duca(12).
Insieme alla manodopera fu ordinato della materia prima per la
lavorazione, come da lettera in cui si riferisce che “la nota
terra, come dissi è a Vicenza ancora, ma per ordine spero che di
breve qua’ giungerà a suo conto”. Inoltre, lo stesso Poato
ordinò un “migliaro uno di marmorino”.
Il duca Pasquale
espresse giudizi positivi sul Poato, giudicandolo “galantuomo che
mi pare onestissimo”, mentre in precedenza aveva avuto un
“tornante (G.Cozzi) e due scultori” per la terraglia ed
il biscotto, i quali vennero licenziati intorno al marzo del 1791,
in quanto non “persone oneste e laboriose” e tali da produrre
collera. |

Ceramica: coperchio
http://www.famigliadalessandro.it/ceramica.html
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Il duca si espresse per un’ulteriore ricerca di operai,
chiedendo allo stesso di Cristofaro di procurare anche uno
stampatore ed un tornitore e di informarlo sui relativi costi.
Per la preziosità
delle opere prodotte e la bravura dei nuovi lavoranti occupati, la
fabbrica pescolancianese ottenne ampio successo e lodi nella
partenopea capitale del Regno. Si racconta che il re Ferdinando IV,
veduti i saggi recatigli dal duca, ne fù tanto meravigliato da far
chiamare l’allora direttore della Reale Manifattura, Domenico
Venuti, per mostrarglieli, lodandone la bellezza. Le maestranze
locali, insieme a quelle napoletane e venete, produssero una
manifattura diversificata con tipologie produttive, tipiche delle
aree di provenienza, tra le quali emerge anche la vicina Cerreto con
la sua lavorazione artistica.
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Poiché la
manifattura di Pescolanciano presentava tecnicamente il consueto
“craquele”, tipico delle produzioni napoletane, si è sostenuto che
ciò presenta un’impronta molto simile a quella della produzione
raffinata attribuita ad Angelo del Vecchio, facente parte della Real
Fabbrica di Caserta. Secondo altri recenti studi, alcune plastiche
in biscuit appaiono collegabili, per certi versi, alle figure della
Real Fabbrica Ferdinandea e per altri aspetti alla produzione veneta
od alla manifattura romana di Giovanni Volpato. Occorre, quindi,
distinguere una produzione di ceramiche pescolancianesi che presenta
uno smalto ricco di stagno e risulta essere decorata, quasi sempre,
con fiori tratteggiati sottilmente, con immagini ritraenti
palme ed anfore, collocate su isoletta. Taluni primordiali
pezzi, tra l’altro, si tramanda portano per marca una P.
Esistono vasi di conserve, campionatura alquanto importante per
l’individuazione della provenienza, in questo stile e decorati
con l’arme ducale di famiglia. |

© Napoli - Piazza Trieste e Trento
La dimora del duca d'Alessandro a pochi passi da Palazzo Reale |
Inoltre, zuppiere con coperchi con “frutta colorita al
vero e decorate con foglie di un bel verde” hanno pasta
bianchissima, ornate di lavori a rilievo ed a traforo con smalto
splendido e trasparente.
Per questo colore candido e per la
specifica gravità si facevano rassomigliare, secondo il ceramologo
G. Novi (1881), alla porcellana prodotta in Inghilterra. Comunque,
altra lavorazione presentò uno stile e gusto ispirato a quello
dell’arte classica, diffusa in tutta Europa sul finire del XVIII
secolo e riflessa nell’arte decorativa napoletana della Reale
Fabbrica, diretta dal menzionato pittore D.Venuti.
Il biscotto (biscuit) uscito dalle fornaci del castello
d’Alessandro, per lungo tempo erroneamente ritenuto manufatto
delle fornaci di Cerreto Sannita, presentava una tipica
“impronta roccocò” per le sue decorazioni arabesche, per i
motivi floreali, i paesaggi rappresentativi ed i soggetti
esotici. |
Questa impresa manifatturiera
del duca Pasquale, inizialmente, presentò tutti gli elementi
indispensabili per un futuro successo commerciale, e cioè:
-Trattavasi
dell’unica attività di produzione di manifatture, presente nella
zona alto-molisana(13),
tale da consentire alle popolazioni locali di non dover ricorrere
più a Cerreto ed Arianoirpino per la maiolica o a Napoli per la
terraglia e porcellana, gravate tra l’altro dai dazi e costi di
trasporto.
-La zona
alto-molisana risultava avere allora una migliorata rete stradale
servita con la “strada di Abruzzo”, che collegava
Napoli-Isernia-Aquila-Teramo e Chieti. Presso queste vie di
comunicazione e tratturi intanto si registrò, durante la seconda
metà del XVIII secolo, un aumento della popolazione indigena e dei
loro trasferimenti.
-Poteva essere, facilmente, sfruttata l’abbondanza di materia
prima e delle fonti energetiche (acqua e legname) sul posto. - Dicesi, al riguardo, che il
duca facesse reperire il materiale da utilizzare per la manifattura
nelle località limitrofe al feudo di Pescolanciano. |

Alcune produzioni della fabbrica
di Pescolanciano |
Il gesso
proveniva da Civitanova del Sannio, da Palata, da Montecilfone, da
Lupara Larino, mentre la pietra focaia e l’acido silicio da
Cantalupo del Sannio.
L’ultima
manifattura, prodotta dalla fabbrica, fu seguita di persona dal duca
perché si trattò di ordinativo fatto dal re Ferdinando. Per tale
richiesta il d’Alessandro pensò di realizzare un servizio di
porcellana, su cui erano miniate le più belle vedute di
Pescolanciano e di altri suoi feudi (Civitanova, Carovilli,
Pietrabbondante etc.) con i diversi antichi costumi degli abitanti
locali. Il duca controllò tutte le fasi della cottura, che
richiedeva la massima diligenza. Secondo quanto viene
tramandato, in una mattina del 1795, don Pasquale, recatosi ad
osservare lo stadio finale della produzione dei suddetti
manufatti, trovò -con amara sua sorpresa- disertati i fochisti e
la maggior parte dei pezzi affumicati, per eccesso di
fuoco e cammino irregolare delle fiamme. |
Si riferì che i fornaciari occupati furono assoldati dal direttore
della Reale Fabbrica di Napoli, il Venuti, che, per invidia, fece
sabotare la fabbrica di Pescolanciano, facendone incendiare i forni
nel corso della lavorazione.
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Si è comunque
ritenuto al riguardo che, sebbene la fabbrica del duca Pasquale
rappresentasse una produzione ridotta ma antagonista e
concorrenziale alla Manifattura Reale, operante quasi in regime
di monopolio, le motivazioni della distruzione andrebbero
ricercate anche nella incapacità dell’ultimo maestro Poato, su cui ricaddero però i sospetti di cui sopra.
L’idea
di un sabotaggio pilotato, di natura anche politica e celato dietro
una scarsa professionalità delle maestranze, è la tesi che emerse
negli anni successivi. Innanzitutto, fu riscontrato che quel
livornese del direttore Venuti, con l’avvento degli occupanti
francesi nel 1799 e relativa
Repubblica Napoletana, fu scelto dal
generale Mac Donald alla guida della fabbrica di Capodimonte.
Costui, come il Poato, animati dalle nuove idee di eguaglianza e
fraternità, intesero forse colpire il duca d’Alessandro, ormai noto
nell’ambito delle corti europee e del regno, quale modello di fedele
aristocratico e “moderno” feudatario.
Inoltre, tale “mano invisibile” rivoluzionaria tornò a colpire
in modo evidente qualche anno dopo. |

Logo Repubblica Napoletana - 1799 |
L’impresa manifatturiera, come da lettera del 28 luglio 1798 del
Registro dei Mandati(14), si chiuse con lo smantellamento da parte di
un tale Sabbetta per vendita delle ultime fornaci presenti nelle
pertinenze del castello con i rispettivi magazzini. Sul disastrato
epilogo fu scritto dal duca o da suo familiare questa frase: “Deus
dedit, Deus abstulit ; sit nomen Domini benedicium”. |
Il 25 luglio 2014 è stato inaugurato a
Pescolanciano il Museo delle Ceramiche, allestito nei locali
dell’ex Taverna del Duca d’Alessandro, con la collezione
appartenente ad Ettore d’Alessandro, erede della dinastia, che
ha presenziato all’apertura di questo secondo museo, dopo quello
delle
Carrozze a Napoli, dedicato al benefattore Mario
d’Alessandro di Pescolanciano. |

Pescolanciano - Museo delle
Ceramiche |
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Note:
1) Archivio Centro Studi
d’Alessandro, Appunti personali, fine XVIII sec., Tom.XI.
2) Benedetto Croce, in merito alla
classe intellettuale formante la nazione napoletana, riconobbe
“il largo contributo che a quella classe apportò la nobiltà, la
quale nella sua parte migliore…contò nelle sue file un Raimondo
di Sangro, un Gaetano Filangeri, un marchese Palmieri, un
Salvatore Pignatelli principe di Strongoli, un duca di Cantalupo
de Gennaro, un marchese Caracciolo ed altri”.
3) Il proclama di liberazione del
re Filippo V, indirizzato alle popolazioni dell’Italia
meridionale al momento dell’inizio della campagna di conquista
del regno di Napoli, si espresse con le seguenti parole : “han
penetrato il mio reale animo i clamori delle eccessive violenze,
oppressioni e tirannia che da tanti anni a questa parte ha
commesso il governo alemanno…mosso da compassione, ho deciso di
mandarvi personalmente a recuperare questi regni”. Difatti, i
regni di Sicilia e Napoli erano rimasti per oltre due secoli
sotto la dominazione iberica, che aveva affidato il governo di
detti territori ad un viceré. Questa prolungata condizione della
colonia spagnola produsse conseguenze nefaste per il
mezzogiorno, quali: la perdita di autorità dei magistrati e
ministri locali; lo scioglimento dell’esercito formato da
elementi indigeni; l’esoso aumento di numerosi tributi e tasse a
favore dell’erario spagnolo; le maggiori facilitazioni concesse
al commercio spagnolo; l’asservimento dei feudatari e della
nobiltà spogliati di poteri e ricchezze prodotte. Il popolo del
vicereame era poi stanco ed esasperato per i tanti soprusi
sofferti durante l’occupazione iberica ed in varie occasioni
manifestò avversione con sanguinose rivolte (Masaniello,
congiura di Macchia). Questo clima di lotta, per ottenere
maggiore libertà e giustizia, fu poi incoraggiato ed avallato da
un editto dello stesso re Filippo V di Borbone, datato 7
febbraio 1735, nonché del figlio don Carlos (marzo 1735) nel
quale suo discendente diretto si affermò l’intendimento di voler
liberare le Sicilie “per amor di popoli oppressi dalla durezza
ed avarizia tedesca”.
4) H. ACTON, I Borboni di Napoli
1734-1825, Milano 1960 p.64
5) Archivio Centro Studi
d’Alessandro, Orazione funebre per la morte di S.E. il sig.
D.Pasquale d’Alessandro, Tom.XI, Pescolanciano,1817.
6) Archivio Centro Studi
d’Alessandro, Manoscritto rendiconto n.106 del 1806, Tom.VIII.
Il cavaliere Francesco d’Alessandro, per disposizione paterna
testamentaria, ricevette una dote annua ammontante a 1.200
ducati circa che furono poi formalmente riconosciuti con
convenzione presso il notaio Francesco Talamo di Napoli.
7) Archivio Stato Campobasso, Atti
notarili Protocollo del notaio D. Moccia, op.cit., anno 1790.
8) Nel 1743 circa nasceva a Napoli
la manifattura di porcellane per un’ambizione reale di
adeguamento alle mode raffinate ed ai gusti artistici delle
principali Corti europee. “Capodimonte” fu creata prendendo a
modello la famosa fabbrica di porcellana di Meissen.
Successivamente nel 1757 sorse il gabinetto di porcellane della
“Reggia di Portici”. Tra le iniziative private, che si
affiancarono alla fabbrica Reale, si annoverano: la fabbrica di
Francesco Securo nel monastero di Monteverginella, del
Giustiniani, quella di Salvatore Mauro o di Sebastiano Cipullo
per dorare le porcellane, di del Vecchio (finanziata dal re per
18.000 ducati) per la porcellana per servizi da tavola etc. Il
gusto rococò fu inizialmente predominante così come si diffuse
la porcellana cinese nella Napoli borbonica della prima metà del
XVIII secolo. Poi, imperò la cultura neoclassica nella
manifattura.
9) V.Gleijeses, La Piazza del
Plebiscito in Napoli, Napoli, 1968, p.43.
10) F. Battistella, La fabbrica
di terraglie “all’uso d’Inghilterra”,maioliche e porcellane del
duca Pasquale d’Alessandro a Pescolanciano, da Atti XXII
convegno internazionale della ceramica. Le terraglie italiane, a
cura del Centro Ligure per la storia della ceramica, Albisola
1989, pp.51-52.
11) Il Battistella (ibid, p.55)
ritiene che tale ricerca di maestranze in altri stati, quale
nella repubblica di Venezia, derivò dalla scarsa offerta di
lavoranti nel napoletano perché in gran parte impiegati nella
Real Fabbrica di porcellane o nella manifattura dei Del Vecchio.
Inoltre, la ricerca di personale abile si diresse sul Veneto,
ove per antica tradizione era possibile reperire numerosi
lavoratori specializzati in cerca di occupazione a causa della
crisi di talune locali fabbriche di manifatture.
12) Il Poato lavorò intorno al
1786 presso la fabbrica di Giovanni Maria Baccin di Nove di
Bassano per poi spostarsi su Trieste, ove si occupò nella
fabbrica di terraglie di Pietro Lorenzi. La mattina del 28
aprile 1791 il medesimo si presentò senza preavviso ed alcun
patto stipulato. Il duca, però, lo sottopose ad una prova “di
fare due cotte di Fornace, in una delle quali avesse dovuto
cuocere la Maiolica e Terraglia in Biscotto, e nell’altra la
Terraglia verniciata”. L’inizio della prestazione, in data 29
aprile 1791, non generò risultati soddisfacenti nelle varie
prove sulla terraglia,biscotto,maiolica “perché il medesimo non
seppe dare il fuoco secondo l’arte”. Diverse prove furono fatte
senza buoni risultati: “quantità di robba di Maiolica
rovinata…come seneveggono similmente per mostra”. Il Poato si
giustificò attribuendo la responsabilità alle non perfette
fabbricazioni delle varie fornaci architettate e costruite dallo
stesso. Solo alla quarta prova il duca si convinse a cedere “in
affitto la Fabbrica” con nuova fornace (concessa al Poato
supplicante e piangente).
13) F. Longano, Viaggio per lo
Contado di Molise nell’ottobre 1786. Ovvero descrizione fisica,
economica e politica del medesimo, Napoli, 1788, pp.70-71.
L’autore accenna nella sua inchiesta alla presenza sul
territorio dei soli “vasai” di Trivento.
14) Archivio Centro Studi
d’Alessandro (Buonincontri), Registro dei Mandati, 1798.
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Pagina realizzata dal Dott. Ettore d'Alessandro di
Pescolanciano
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