Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili
di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti
alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che
abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.
|
Il governo dei Nobili a Napoli:
Autonomismo, decentramento, partecipazione
governativa dei Seggi cittadini.
di Ettore d’Alessandro di Pescolanciano
|
Seggio di
Capuana |
Seggio di
Portanova |
Seggio di
Nilo |
Seggio di
Porto |
Seggio di
Montagna |
Seggio di Forcella |
Seggio del
Popolo |
1. L’autonomismo
oligarchico del patriziato e dei baroni nel Regno
La nobiltà cittadina di Napoli, al pari di quella
municipale francese “Noblesse de cloche” ha partecipato
al secolare funzionamento del sistema di governo urbano e di
quello del Regno, mantenendo nel tempo un evidente livello di
autonomia, rispetto al potere centrale reale e papale, nonché
garantendo il rispetto dei princìpi di decentramento e
partecipazione nell’amministrazione.
La storia di Napoli, capitale del regno è, quindi,
legata da un vincolo simbiotico con quella delle tante famiglie
patrizie, con loro genealogie ed ascendenti ivi residenti nel
corso dei secoli. Questi gruppi familiari, che scelsero di
vivere in determinate aree della città e del regno con proprie
regole e nel rispetto di tradizioni e costumanze locali sin
dall’origine dell’antica Partenope, sono stati presenti quali
importanti protagonisti della crescita urbanistica e sviluppo
economico dell’Urbe. |
Moneta napoletana
raffigurante la sirena Partenope |
Difatti, tale ceto nobiliare ha lasciato diverse
tracce del proprio livello socio-culturale, degne del lignaggio
di appartenenza, nella compagine cittadina partenopea,
edificando maestosi ed artistici palazzi gentilizi, imponenti
cappelle familiari, suntuose chiese e contribuendo pure alla
nascita di famose opere pie assistenziali.
Tra gli enti caritatevoli-assistenziali, sorti a Napoli, si annovera il
Pio
Monte della Misericordia, fondato dai nobili Cesare
Sersale, Giovan Andrea
Gambacorta,
Girolamo Lagni, Astorgio
Agnese, Giovan
Battista
d’Alessandro, Giovan
Vincenzo
Piscicelli, Giovan
Battista
Manso. Altro esempio fu il
piccolo conservatorio, prima, Eremo di Suor Orsola Benincasa,
poi, di cui le cronache riferiscono che “presero esempio gli
Eletti della città, e tutti i cittadini…uomini e donne, giovani
e vecchi nobili cittadini, e plebei, si spogliarono di tutt’il
meglio che avevano per impiegarlo in limosina di questa fabbrica”(1).
E’altrettanto noto il contributo di taluni nobili allo sviluppo
di un’economia pre-capitalista locale, tramite la fondazione di
rinomati “banchi”, specializzati nell’attività creditizia già
dal XV secolo.
Il latifondismo feudale, inoltre, ha garantito
nei secoli un micro-sistema economico locale, basato su
un’agricoltura sviluppata e su varie attività di allevamento
collegate. Il mecenatismo dell’aristocrazia, inoltre, favorì la
presenza in Napoli di famosi artisti (architetti, pittori,
scultori) e letterati che produssero capolavori di grande
successo.
In sostanza, il patriziato napoletano ha contribuito
all’abbellimento, seguendo le mode raffinate del tempo, così
come alla crescita urbana (strade, quartieri, edifici pubblici)
ed economica della città e delle province del regno. La fama di
tanto splendore, raggiunto dalla città di Napoli nel corso dei
secoli, si diffuse rapidamente in tutti gli stati esteri e fu
tale da incuriosire ed invogliare molte personalità straniere
nel visitare la corte partenopea e suoi luoghi cittadini. E’,
inoltre, opportuno ricordare i numerosi personaggi, dai nobili
natali, che dettero grande impulso alla poesia, alla musica ed
alle arti, partecipando alla formazione di illustri accademie
culturali, frequentate, poi, anche da studiosi di altri paesi.
Memore delle antiche tradizioni politiche ellenico-romano,
legate alle forme di governo democratico-libertario-repubblicano,
il suddetto ceto non accettò tanto facilmente il dispotismo e le
monarchie assolutiste (La città di Napoli “in tutto il medio
evo erasi retta a municipio bizantino, con forme repubblicane.
Solo nel 1130 Ruggiero Normanno v’introdusse le forme
monarchiche(2)).
Combattuta, all’interno del ceto, tra il sentimento di fedeltà e
devozione all’autorità monarchica e l’ideale progettualità di un
governo oligarchico in un regno autonomo ed indipendente, il
patriziato napoletano si trovò in diversi avvenimenti politici
non unito, per tale divergenza.
Nonostante il susseguirsi delle varie regnanze, favorevoli o
meno alla presenza di un cotale sistema di potere familiare
oligarchico, è opinione comune ritenere la “schiatta” napoletana
non “ vano avanzo d’una spenta istituzione, ma un potente ordine
d’uomini, ai quali era commesso il conservare le usanze ed i
privilegi della Città e del Regno di Napoli”(3).
Tale potente ceto dimostrò nel corso delle varie monarchie,
succedutesi nel regno di Napoli, di essere in grado di sollevare
ben organizzate rivolte politiche, coinvolgendo le masse
popolari. Ciò è quanto avvenne nel 1485, allorquando la nobiltà
baronale, comandata dal principe Roberto
Sanseverino, sollevò grande
tumulto contro
Ferdinando
I d’Aragona, chiedendo l’aiuto del duca Giovanni d’Angiò e
dello stesso Papa. La causa, scatenante la rivolta, fu il
tentativo della corona Aragonese di rinsaldare il prestigio ed
il potere monarchico nel regno [I principali nomi dei baroni
ribelli furono: Pirro
del Balzo
(principe di Altamura), Antonello Sanseverino (principe di
Salerno), Girolamo Sanseverino (principe di Bisignano), Piero
di Guevara (marchese del Vasto),
Giovanni della Rovere (duca di Sora), Andrea Matteo
Acquaviva (principe di
Teramo), Giovanni
Caracciolo
(duca di Melfi), Angliberto del Balzo (duca di Nardò), Antonio
Centenelli (duca di Melfi), Giovan Paolo del Balzo (conte di
Nola), Pietro Bernardino
Gaetano
(conte di Morcone). Francesco
Coppola
(conte di Sarno), Francesco Petrucci (conte di Carinola),
Giovanni Antonio (conte di Policastro)(4)].
L’alleanza dei baroni tenne testa all’esercito aragonese per
circa un anno di combattimenti, riportando clamorosi successi.
La divisione interna al gruppo dei feudatari, causata anche
dalla presenza di una nobiltà rampante di recente formazione
mercantile, gli odi feroci ed una profonda rivalità sviluppatasi
tra taluni esponenti portarono il principe di Salerno,
rappresentante la vecchia casta feudale, a commettere vari
errori. La monarchia soffocò, così, nel sangue questa prima
rivolta di cortigiani (Tra il 1486 ed il 1487 furono condannati
e giustiziati Francesco Coppola, conte di Sarno, Antonello
Petrucci e suoi figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni
Antonio, conte di Policastro. Mentre vari baroni congiurati
finirono nelle prigioni di Castelnuovo, ove nella notte del
natale 1491 vennero soppressi(5)).
Contro il governo assoluto dell’imperatore
Carlo V,
nuovamente la nobiltà cittadina ed i baroni si schierarono,
parteggiando per l’armata francese, comandata dal Lautrec, scesa
in Italia per volere sia del re di Francia che d’Inghilterra e
della Svizzera, per liberare papa Clemente VII dalle prigioni di
Castel S.Angelo. Nel 1528, molti casati filo-francesi, “ricordevoli
di quel dominio sotto la casa d’Angiò”(6),
parteggiarono per Odetto de Foix, visconte di Lautrec, causa il
“tedio ed odio del dominio spagnuolo”. Tra i nobili
anti-spagnoli, che particolarmente emersero nel conflitto, si
ricordano Andrea Matteo Acquaviva, duca d’Atri, “il principe
di Melfi, il conte di Conversano, e Federico Gaetani figlio di
Onorato duca di Traetto e conte di Fondi, ed Errico Pandone duca
di Boiano e conte di Venafro, cognato del conte di Conversano ed
Alfonso Sanseverino duca di Somma”(7).
Il Lautrec trovò concreti sostegni e supporti da parte di questa
aristocrazia, allorquando cominciò ad invadere il regno con le
sue truppe. Le adesioni alla causa francese furono numerose ed
importanti, come testimoniano gli elenchi dei ribelli, redatti
dal governo vicereale al termine della contesa ispano-francese.
Tra gli esponenti più rinomati della nobiltà del regno vengono
citati: Sergianni Caracciolo (principe di Melfi), Antonio Carafa
(principe di Stigliano), Alberico Carafa (duca d’Ariano), Andrea
Matteo Acquaviva (duca d’Atri), Errico Pandone (duca di Boiano),
Ferrante
Orsino (duca di Gravina),
Alfonso Sanseverino (duca di Somma), Ferrante
Castriota (duca di S. Pietro in
Galatina), Giovan Bernardino
Zurlo
(duca di Nocera), Giovan Vincenzo Carafa (marchese di
Montesarchio), Roberto Bonifazio (marchese d’Oria), Niccolò
Maria Caracciolo (marchese di Castellaneta), Giacomo Maria
Gaetani (conte di Morcone), Giovan Francesco Carafa (conte di
Montecalvo), Raimondo Orsino (conte di Pacentro), Giulio Antonio
Acquaviva (conte di Conversano), Francesco Sanseverino (conte di
Capaccio), Giacomo d’Alessandro (barone di Cardito), Antonio
di Somma (barone di Castigliano) e
decine e decine di altri feudatari(8).
Molti di costoro non usufruirono degli indulti di
Carlo V del 24 aprile 1529 e del 28 aprile del 1530, tanto da
essere fatti morire in segreto. E’, poi, da ricordare anche un
altro significativo episodio di intolleranza del patriziato
partenopeo verso il dispotismo vicereale.
Si tratta dei moti insurrezionali
politico-religiosi della nobiltà napoletana contro l’aborrita
Inquisizione “al modo di Spagna”. La prima reazione si verificò
a fine 1509 con l’arrivo dell’Inquisitore spagnolo, Andrea
Palazzo, a Napoli. Gli eletti, i gentiluomini ed i baroni con il
Popolo si recarono dal viceré Cordova per richiederne
l’allontanamento, giurando con atto pubblico “prima le honore,
posponendo la ribellione, da perdere la robba et la vita che
permectere se facesse tale inquisiscione”.
Il patto di
affratellamento, tra patriziato e popolo, si confermò anche
nell’adunata del 21 ottobre 1510 in San Lorenzo, nella quale si
sancì che “in segno de dicta unione se abrazorono et basaro
tucti…et per lo advenire essereno boni figlioli, patre, fratri
et una cosa”.
Questo primo tentativo spagnolo di introdurre
un valido strumento di controllo
politico a sostegno del governo
vicereale, con cui stroncare ogni forma di dissidenza tra i
sudditi, fu sospeso per essere poi riproposto nel 1547, sotto il
viceré Toledo. |
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Alcuni anni prima, tra l’altro, nel 1535-36,
passando l’imperatore Carlo V per Napoli, furono accolte le
proteste dei principali esponenti dell’aristocrazia cittadina
verso il governo autorevole ed energico di detto viceré Pietro
de Toledo, per il quale se ne chiedeva la destituzione dalla
carica. Il viceré, non solo fu confermato, ma si acuirono con
maggior durezza i rapporti con le rappresentanze del Regno, del
Parlamento, delle città e degli eletti, causa anche
l’intensificarsi del prelievo straordinario (donativi), in
seguito alle delibere di varie assemblee(9).
In proseguo, con l’accendersi dei moti del 1547 contro il
tribunale dell’Inquisizione spagnola [L’imperatore Carlo V
ordinò al vicerè di introdurre
“l’inquisizione
a modo di Spagna”
che fu presentata dal Breve apostolico a mezzo di editto,
affisso
“alla porta del Duomo”.
La reazione della città fu
immediata tanto che
“minacciò il vicario dell’Arcivescovo”.
Gli
eletti “riunirono i nobili ed i popolani..e si decise di mandare
una deputazione – tra cui vi era Antonio Grisone – dal vicerè
Pietro di Toledo”
che calmò gli animi con promesse ingannevoli.
Al secondo tentativo del 21 maggio di riaffissione dei
“cedoloni”
sull’Inquisizione, il popolo corse alle armi
“col
suono della campana di S.Lorenzo”,
raccogliendosi in
piazza S. Agostino.
”I
nobili allora mossi dal comune pericolo si riunirono a’ plebei
loro diedero il nome di fratelli, e fecero con loro causa comune”(10).
Il viceré Toledo raccolse circa tremila spagnoli nei castelli
per soffocare nel sangue la rivolta scoppiata nell’urbe. La
situazione precipitò quando tre
“algozzini”(sbirri) del
Tribunale della Vicaria furono attaccati da un gruppetto di
giovani nobili, intenzionati a liberare un prigioniero accusato
dall’Inquisizione. Il vicerè Toledo li fece arrestare e
“ne fece
scannare tre in pubblico”
(Fabrizio d’Alessandro, Antonio Villamarino, Gio. Luigi
Capuano) da
uno schiavo moro nella piazza di Castelnuovo.
Subito dopo, il
Toledo cavalcò impavido per la città con uno stuolo di spagnoli
a segno di sfida, nello sdegno di tutta la cittadinanza. Il
popolo con i nobili si unirono nell’associazione detta
“Unione”
(retta da Cesare
Mormile, il priore di
Bari, l’Eletto Giovanni Di Sessa) per contrastare il viceré,
organizzando ambascerie presso l’imperatore Carlo V e
fortificazioni difensive in S. Maria la Nova ed a Monteoliveto.
Numerosi furono i cruenti combattimenti contro gli spagnoli,
tanto da costringerli a ritirarsi nei castelli. Per evitare il
precipitare delle contestazioni, Carlo V decretò l’abolizione
dell’Inquisizione, garantendo promesse di amnistia, poi non
rispettate.
Tra i giustiziati vi furono Giovanni Vincenzo
Brancaccio
(11).], si presentò, nuovamente, l’unione tra ceto
nobiliare e popolare. Alla guida della rivolta si pose, ancora
una volta, un Sanseverino, dichiaratosi acerrimo nemico del
Toledo. Scoppiarono in città violenti tumulti di piazza, che
videro così uniti i rappresentanti delle piazze aristocratiche
con il popolo contro le truppe spagnole, a causa degli esemplari
castighi inflitti dal viceré. Detto principe Ferrante
Sanseverino ed altri patrizi si offrirono, poi, alla causa
rivoluzionaria quali ambasciatori presso l’imperatore Carlo V,
che però confermò l’obbedienza al governo vicereale.
Questo
nuovo episodio di difesa e salvaguardia dei princìpi di
indipendenza ed autonomia politica, goduti dalla schiatta
napoletana e dalla rispettiva città, si concluse con sanguinosi
processi, una pesante ammenda da pagare e varie condanne……... |
©Napoli - Piazza San Gaetano
Gli stemmi dei Sedili o Seggi di Napoli sulla facciata ingresso
Museo
Opere di San Lorenzo e Scavi, già sede del Tribunale di San
Lorenzo. |
Altro tentativo di rivendicazione indipendentista
fu quello relativo ai tumulti per il “mancamento del pane” nel
maggio 1585. La causa scatenante fu un’imprevista carestia di
grano, le cui riserve erano state esportate in grande quantità
in Spagna per volere del re.
Gran parte degli eletti, il
prefetto dell’annona ed i sindaci proposero di fronteggiare la
crisi, diminuendo la materia prima nella panificazione, pur
mantenendo inalterati i prezzi. Vi si oppose l’eletto del
Popolo, Giovan Vincenzo Starace, ritenendo tale proposta una
manovra speculativa basata su una frode alimentare, che
avvantaggiava le categorie dei feudatari-latifondisti, dei
commercianti, panificatori e bottegai. I disordini contro gli
spagnoli portarono alla morte straziante del suddetto eletto per
mano dello stesso spietato popolo, preoccupato per la crescente
situazione di disagio. In questo tumulto la nobiltà tentò di
“calmare” il popolo, cercando -su consiglio governativo- di
persuaderlo dal compiere atti vandalici e violenti, nonostante
l’offesa subita dal viceré in una festa cittadina, ove i posti
più onorevoli furono riservati agli spagnoli(12).
Questo episodio di cruenta contestazione, rispetto a quelli
passati, contro il governo complice del viceré,
Pietro Giron
duca di Ossuna, vide quali principali protagonisti i diversi
settori della borghesia cittadina, accorta al bisogno di riforme
e di equiparazione al rango dei nobili [Tra gli incolpati,
protagonisti della ribellione, il droghiere Gianlionardo Pisano,
la cui casa in piazza della Sellaria fu rasa al suolo e vi fu
“piantato un epitaffio di marmo..ed alquante finestrine, con
alquante finestre, con le graticole di ferro, vi fe’ metter
dentro più di venti teste, con molte delle mani di quei miseri,
che furono per tal causa impiccati”
(13)
].
Questa classe media emergente si rese altrettanto complice nella
rivolta politica di Masaniello del 1647, per rivendicare una
riforma nell’ordinamento amministrativo cittadino “tutto
sbilanciato a favore del patriziato urbano raccolto nei seggi
nobili”(14).
L’esplosione popolare si manifestò con il tentativo governativo
di imporre nuove tasse, tra cui il dazio sul consumo della
frutta, il cui casotto fu dato alle fiamme in piazza Mercato
nella notte dell’Ascensione (6 giugno 1647). Il pescivendolo
Masaniello si trovò a capo delle scorribande e degli assalti
successivi contro i simboli ed i rappresentanti delle gabelle,
ricevendo sostegno da vari ispiratori, come Giulio Genoino,
rappresentante dei gruppi nobiliari antispagnoli, nonché dagli “occulti
conspiratori”
(15). |
Lo stesso cercò, pure, il sostegno di Don Tiberio
Caraffa, duca di Bisignano e maestro di campo del battaglione di
Napoli, perché “compassionevole e della plebe amico”(16).
Altri nobili, invece, si attivarono per far rientrare la
sommossa, avanzando “larghe promesse...o con ampie
concessioni scritte”, come nel caso del principe di Satriano,
di Bisignano e di Montesarchio. Tra l’altro, su questa vicenda
dell’aggravio fiscale, anche i seggi presero posizioni
discordanti. Secondo il citato studioso Bisaccioni, i sedili di
Nido e Capuana si mostrarono attivamente contrari alle nuove
imposizioni, pur rimanendo fedeli al viceré, duca d’Arcos.
Questa fedeltà fu così riconosciuta nei capitoli del 7
settembre, postumi ai moti, allorquando si sancì l’interdizione
dalle cariche pubbliche al solo patriziato di Porto, Montagna e
Portanuova per la loro partecipazione ai moti. E’, inoltre,
utile per meglio comprendere la posizione politica oligarchica
della nobiltà partenopea, citare la “Regale Repubblica” di
Napoli, sorta posteriormente al tumulto tra la fine del 1647 ed
il 1648 sotto la protezione del re di Francia [Lo studioso Conti(17)
riferisce dell’esistenza di vari bandi emessi, tra l’ottobre
1647 e l’aprile 1648, dal “Fidelissimo Popolo”
napoletano, di cui quello datato 17 ottobre 1647 riguarda
l’appello ai vari regni per combattere la Spagna.
Altro del 22/24 ottobre cita la costituita
repubblica per la quale “questo Regno Repubblica, acciò niuno
Re, Monarca o Regulo possi havere altra pretensione”.
Al duca di Guisa fu conferita carica di “Generale dell’armi”
della repubblica e “Difensore della sua libertà”. Tutti
questi bandi repubblicani e spagnoli hanno costituito la fonte
documentaria dell’opera realizzata da J.Howell(18).] e della di lui fedele guida, Enrico di Lorena duca di Guisa. |
Tommaso Aniello detto Masaniello |
Tale governo fu formato da tre senatori per il popolo e tre per
la nobiltà [ I senatori del Popolo furono: Agostino Mollo,
Gennaro Annese, Vincenzo D’Andrea; i nobili: Diomede Carafa,
Cesare
da Bologna, il principe
Francesco
Filomarino di
Roccadaspide(19).
], oltre a due senatori (un popolare, un nobile) per ogni
provincia (per un totale di 24 senatori).
La scelta dei circa 30
senatori della Repubblica(20)
rispettò il principio di pari uguaglianza tra nobiltà, popolo e
province. In un editto di quel tempo si accenna alle Province,
sollecitate nell’invio di rappresentanti a Napoli “per
trattare per commune beneficio”, così come ai seggi
cittadini tali da essere trattati “come nell’antichi tempi..
quelli Nobili, che producono le loro nobili attioni, o in virtù,
o in arme”. Pertanto, l’ordine nobiliare del regno
(feudatari e patriziato cittadino) si dovette equilibrare per
rappresentanza numerica e funzioni con l’ordine popolare,
rinunciando anche a prerogative secolari (la gestione fiscale) e
ridimensionando la propria sfera d’influenza(21).
Ai nobili sarebbe rimasto, in modo formale, il tradizionale
comando degli eserciti e delle ambascerie (già affidato a
Francesco
Toraldo, principe di Massa),
mentre ai popolari il controllo economico della condotta della
guerra per il tramite del “provveditore generale”
(Vincenzo D’Andrea). Costui si rivelò “uomo che per valore
d’ingegno, e per altezza di mente e vigor d’animo nell’eseguire
quel che intraprendeva, era senza dubbio il primo fra’sollevati;
il quale aborrendo ogni sorta di dominio, si aveva dato a
credere di erigere la città ed il regno in repubblica”
(22).
Tale Serenissima Real Repubblica di Napoli si ispirò al “modello
classico di Roma repubblicana” con i suoi equilibri tra ceti
sociali e tentò di emulare la contemporanea repubblica olandese
“delle sette province unite”. Questa sorta di repubblica
popolare, su modello federale-rappresentativo con suoi
incaricati provinciali e cittadini, si formò su un’unità di
intenti tra popolo e nobiltà volta al raggiungimento
dell’indipendenza dalla Spagna ed alla salita di un proprio re,
godente della protezione della corona francese. Questo progetto
rivoluzionario, comunque, sfumò per il ritiro dei nobili,
consapevoli del sopravvenuto disimpegno del sovrano francese
verso l’impresa bellica partenopea,
nonché per il manifesto disaccordo popolare nell’accettare una
nuova regnanza(23).
Inoltre, l’immagine troppo radicale e violenta di una repubblica
popolare fece indebolire le alleanze interne ed esterne,
contrarie ad un governo, sempre più spostato sul versante del
popolo minuto, nonché antimonarchico, antiassolutista e
rivoluzionario sanguinario.
Simile repubblica, ove il popolo si sostituiva al
sovrano con la minaccia di sottrarre i beni ai legittimi
possessori per interesse privato (esproprio repubblicano per
pubblica utilità), sollevò grandi timori tra vari esponenti
compartecipi della società locale e di altri stati. Comunque,
già il 16 luglio, nella solenne ricorrenza della Madonna del
Carmine, il tumulto era rientrato con l’assassinio del
pescivendolo Masaniello, le cui spoglie furono poi sepolte nella
chiesa del Carmine, oltre allo sterminio dei suoi fedeli
collaboratori. Nei mesi successivi, infine, fu sedata
definitivamente ogni altra forma di lotta, proseguita dal Toraldo, l’Annese ed il Guisa(24).
Ben altro sviluppo ebbe, invece, la rivolta aristocratica del
1701 in Napoli, nota alle cronache col nome del suo principale
protagonista, il principe di Macchia, D. Gaetano
Gambacorta. Questa
congiura scoppiò
nel periodo in cui si aprì la questione successoria alla morte
dell’imperatore Carlo II d’Asburgo e si profilò il passaggio
della corona spagnola con i suoi domini ad un principe francese,
Filippo di Borbone duca d’Angiò. A Napoli, in tale epoca, andò
ad affermarsi un partito di aristocratici, capitanati da Tiberio
Carafa principe di Chiusano, che ispirati da “un vago ideale
autonomistico”(25)
fecero un primo tentativo di delegittimare il vicerè, duca di
Medinaceli, per contrapporgli il potere delle piazze e del corpo
degli Eletti.
I congiurati, che si affiancarono al Carafa
furono: il duca Francesco
Spinelli di
Castelluccia, Giuseppe
Capece,
Francesco e Bartolomeo Ceva Grimaldi duca di Telese, Savero
Rocca dei marchesi di Vatolla, Malizia Carafa, Giambattista
di Capua principe della Riccia, Cesare
d’Avalos, marchese del Vasto, Francesco
Gaetani principe di Caserta, Carlo ed Antonio Evoli dei duchi di
Castropignano, Francesco Chassignet barone di Lisola ed altri
nobili, sostenitori del partito asburgico-autonomista(26).
Costoro,
difatti, approfittando della contesa successoria tra i Borbone e
gli Asburgo, tentarono di stringere un’alleanza con l’imperatore
d’Asburgo, dell’ausilio del conte di Lamberg e del cardinale
Grimani. Assicuratisi dalla loro parte la guarnigione militare
di Castel Nuovo, nonchè influenti gruppi popolari, i congiurati
spedirono a Vienna D. Giuseppe Capece per definire gli accordi
di alleanza con il suddetto imperatore, Leopoldo I.
Si affiancarono ai congiurati altri valenti
sostenitori, quali il principe di San Severo, Carlo
di Sangro, Gaetano Gambacorta principe
di Macchia che fu nominato “Generalissimo”. Gli eletti
napoletani, invece, rimasero fedeli al viceré Medinaceli, il
quale continuò a governare secondo le disposizioni della Spagna.
I nobili cospiratori, ottenuto l’avallo imperiale sulle
concessioni ed una promessa d’intervento armato tramite il
principe Eugenio di Savoia, programmarono, quindi, la presa di
Castel Nuovo, della chiesa di S. Lorenzo e del mercato, agendo
con scorribande e saccheggi tra il 22 ed il 23 settembre 1701(27). |
© Napoli - Sala Capitolare
, una delle sale del Complesso di S. Lorenzo dove si
riunivano
gli eletti dei Sedili |
Il principe di Macchia giunse, pure, a lanciare
un proclama onde convincere la nobiltà reticente (specie quella
spagnola o filo-francese) a scendere in aiuto ai congiurati,
senza però riuscire a persuadere gli Eletti cittadini. Lo
scontro decisivo con le truppe regie ed un piccolo nucleo
alleato di nobili, guidati dal principe di Montesarchio, avvenne
il 24 settembre all’altezza tra lo Spirito Santo, Port’Alba e S.
Lorenzo, con la messa in fuga dei ribelli. Si sedarono, poi, le
rivolte scoppiate in Aversa, Isernia e Salerno. Il dopo-sommossa
fu costellato da una violenta e sanguinosa repressione, voluta
dal viceré Medinaceli per punire duramente i principali
colpevoli(28).
Il fallimento della rivolta fu, a detta di molti storici, da
imputarsi alla “grande massa del popolo, su cui aveva fatto
leva il Gambacorta per convincere gli altri nobili alla
sommossa, resta assente, indifferente allo svolgersi dei fatti”.
Nella rivoluzione “passiva”(29)
del 1799, che vide la nascita della
Repubblica Napoletana,
una parte della nobiltà
si rese protagonista, con il ceto della borghesia “avanzata” e
di quella intellettuale radicale, di un programma di iniziative
riformiste ed anti-assolutiste dell’assetto istituzionale,
seppur con l’ausilio di una forza militare straniera, comandata
dal gen. Championnet(30).
Durante la breve durata di questo governo
giacobino-democratico-illuminista furono varate le leggi sulla
eversione-soppressione della feudalità e scioglimento dei
fedecommessi e majoraschi.
I sedili lasciarono il posto a sei
municipalità indipendenti(31)
e furono poi aboliti i titoli di nobiltà.
A Napoli tra le fazioni politiche affermatesi vi fu quella che
sosteneva che il governo cittadino fosse affidato, non al
vicario
Pignatelli
(essendo il sovrano ritiratosi in Sicilia), bensì agli Eletti
del senato municipale. Antonio
Capece Minutolo, principe di Canosa, con altri nobili
rivendicarono, inoltre, un governo aristocratico con nuovo re,
scelto dalla Spagna
(32).
La Repubblica partenopea sopperì con lo sviluppo
delle insorgenze controrivoluzionarie della Santa Fede,
capitanate dal cardinale
Ruffo. Al
rientro di re Ferdinando si ordinarono arresti e condanne a
morte verso i ribelli, incriminati di lesa Maestà per aver
collaborato con l’invasore francese e per insubordinazione verso
il vicario.
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2.Il governo nobiliare dei sedili nel corso dei
secoli
L’origine dei seggi nella Napoli greco-romana |
La nascita dei Sedili o Seggi o Piazze di Napoli
si ritiene essere alquanto antica, tale da risalire alle
leggendarie “fratrie” urbane delle città greche, che componevano
le “file”, cioè i corpi in cui era diviso il popolo. Secondo il Giannone(33)
dette fratrie corrispondevano a delle piazze con teatri e propri
templi presenti nelle cittadine dei greci, come da testimonianza
lasciata sia da Varrone(34)
che da Turnebo (“Quod cum Neapolis oppidum Graecum esset, ut
Athenae, suas Phratrias habebat”). In tali aree urbane,
spesso vicine alle porte d’accesso, i soli appartenenti alla
classe, che “viveva nobilmente” e cioè senza svolgere alcun
mestiere o arte (nobiltà di spada, nobiltà di terra, nobiltà di
toga), discutevano di “pubblici affari” o “privati interessi”.
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©
Napoli - Colonna del tempio dei Dioscuri ora
chiesa di S. Paolo Maggiore
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© Napoli - i resti delle mura greche
risalenti al IV sec. A.C.
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Tale classe di cittadini, formante il
“patriziato” con dignità gentilizia trasmissibile ai
discendenti, costituì “antica istituzione sociale”
governativa con poteri politici presso le popolazioni
greca, romana e successive dominazioni barbariche
(germani, goti, galli), come asseriscono gli storici
Draco
(35)
ed il Gentili(36).
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Nel periodo ellenico-romano, rimase,
invece, esclusa dai centri di potere la classe dei
popolani, che, per i loro impegni nelle mercanzie, arti
meccaniche, agricoltura o studio delle varie lettere e discipline, “non poterono aver
quest’ozio di convenir nelle piazze a trattar co’nobili de’
pubblici affari”.
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©
Napoli - Agorà |
Il primo nucleo di nobili, frequentanti dette
aree, si identificò, probabilmente, in quella “Gens” con sue
peculiarità di romana memoria(37).
Secondo il Tutini(38)
la tradizione urbanistica greca, inoltre, prevedeva un
numero di queste aree di incontro, presenti sia a Napoli che
in altre colonie della Magna Grecia, pari a quattro (da cui
deriva il termine “quartiere”).
Gli storici Giovanni Villani,
Falco e Lettieri sostennero, di contro, che la città fosse
all’origine divisa in “tre sole piazze o strade lunghe per
dirittura, e l’altre per traverso erano dette Vichi”.
Quest’ultimo termine fu usato dallo stesso Petrarca per
definire, in lingua latina, questi seggi di Napoli, Vici
cioè vichi”.
Le fratrie, riferisce, poi, Annibale Di Niscia
erano dedicate ad un nume, dal quale prendevano il nome (Phratria
Eumelidarum,
dal dio Eumelo,
Ph. Heboniorum,
dal dio Ebone, Ph.Castorum, dal dio Castore). Filippo
Pagano(39)
aggiunge che ivi, difatti, si radunavano le persone per “esercitare
il natio culto, e venerare i patri numi”.
La trasformazione delle fratrie in seggi avvenne alla fine
del IX secolo, come asserisce il medesimo Pagano,
allorquando “popolani e gentiluomini” cominciarono ad
erigere molti portici in epoca di espansione della
religione cristiana. In seguito, furono edificati appositi
sedili di sosta o seduta dei cittadini, dai quali derivò
l’uso di tale denominazione per indicare detti luoghi,
seppur cominciò anche a propagarsi la dizione di “tocchi”
per indicare le riunioni delle brigate in specifiche zone.
Secondo il citato Tutini, comunque, occorreva mantenere la
distinzione tra “seggio” e “piazza”, per la seguente
motivazione: “benché sia più generico il nome di Piazza,
che di Seggio, ad ogni modo il nome di Seggio alla Piazza si
considera come specie al genere, onde si può dire è Seggio,
dunque è Piazza, perché è una parte di essa; dove convengono
i nobili, che dimorano in quella piazza. Ma non vale dire è
Piazza dunque è Seggio, perché nella Piazza si comprendono i
nobili, che sono fuori del seggio e cittadini che abitano
quella piazza”.
Altri storici hanno, altresì, concordato sull’uguaglianza di
significato di Seggio e Piazza.
Il Capecelatro nei suoi
Annali(40)
individua nella Piazza quel luogo, ove si riunivano i
nobili, facendola corrispondere al Seggio, secondo la
definizione del Tutini. Si diffuse, inoltre, la consuetudine
di chiamare i seggi in base al luogo, ove furono eretti gli
edifici che li ospitavano(41),
nonché in base a quello della famiglia importante ivi
residente, che espletava funzioni amministrative. Nel basso
medioevo, pertanto, il governo politico della città
partenopea rimase sotto il controllo del gruppo di queste
famiglie patrizie di origine greco-romana, mentre l’impero
romano d’Occidente finiva (476) con Romolo Augusto, esiliato
nella villa di Lucullo in Castel dell’Ovo e si andava
affermando l’indipendente Ducato di Napoli del regno
Longobardo. Queste famiglie native, con il precipitare degli
eventi, si trovarono costrette ad integrarsi con altre
forestiere, giunte a seguito delle varie dominazioni
barbariche susseguitesi con i rispettivi sovrani.
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Con la prima monarchia dominante, i governi
municipali (tra cui Napoli), collegati a Bisanzio e retti da
esponenti delle illustre Gens delle provincie a sud di
Roma, dovettero confrontarsi con i loro conquistatori e loro
progetti organizzativi. Fonti storiche certe, quali gli editti
di concessione di privilegi, emanati sotto la regnanza del
normanno Tancredi, riferiscono dell’esistenza di tre-quattro
grandi seggi napoletani. Probabilmente, esisteva già un certo
numero di seggi minori, circa 21, pari ai consoli del magistrato
di governo, durante il regno dello stesso re Tancredi.
E’, quindi, comprensibile come i normanni dovettero
accettare un sistema amministrativo delle città regie, basato su
una già esistente organizzazione dei sedili, al fine di non
inimicarsi le cittadinanze locali. Il primo nucleo di nobiltà di
seggio, comunque, dovette consolidarsi grazie a
re Ruggiero I che
insediatosi a Napoli nel XII secolo “creò cencinquanta
militi, a ciascun dei quali diede in feudo cinque moggia di
terra”.
Questi feudatari (nobiltà di terra e spada) formarono una prima
corte reale, con il patriziato cittadino(42).
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© Ruggiero
I detto il Normanno scelse Castel
dell'Ovo
come sua residenza a Napoli. A destra: Gugliemo I detto il Malo
fece costruire
Castel
Capuano |
Sotto re Ruggiero, nel 1140, si svolse tra
l’altro il primo parlamento dei baroni ad Ariano, nel corso del
quale fu istituita la tassa dell’adoa. I militi, secondo le
tradizioni guerriere normanne, discendevano di norma da altri
militi ed avevano la possibilità di godere delle terre feudali
su concessione dei rispettivi sovrani. Il milite, comunque,
secondo il Padiglione, pur appartenendo ad antica nobiltà
militare,
era un “vir nobilis” solo se aggregato ad una delle
accennate adunanze dei nobili in città, ove tra i requisiti
richiesti per esservi ascritti vi figurava il possesso delle
armi, dei cavalli ed il vivere nobilmente. Tale qualifica, poi,
fu concessa anche ad ufficiali e togati al servizio del sovrano,
al presidente del Consiglio, al luogotenente della Camera, ai
consiglieri e presidenti della Camera.
Infine,
sotto questa regnanza tra i militi figurarono i “cavalieri
aurati”, nonché coloro che erano stati onorati
dall’indossare il cingolo militare, milizia istituita dal conte
Ruggiero Sr.(43).
E’ interessante notare come il simbolo araldico
del Leone, utilizzato dai dominatori normanni, divenne emblema o
facente parte dell’arme di numerose famiglie nobili napoletane a
partire da questa epoca.
Di questa epoca è importante l’atto del 1207 di traslazione del
corpo di Santa Giuliana, da Cuma a Napoli per volere
dell’Arcivescovo Anselmo, perché vi figurarono i primi nobili
del seggio di Nido.
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Il costituito nucleo dei nobili, in tale epoca,
si trovò nei suoi ranghi a frenare la corsa al lusso, ad
ostentare la ricchezza, causa la potenza dei nuovi emergenti
ceti più favoriti economicamente.
Furono, così, emessi dei provvedimenti che fissarono regole di
comportamento sociale, specie per i costumi ed abitudini
consumistiche della nobiltà, onde scongiurare il venir meno
degli impegni militari e fiscali verso la monarchia.
Taluni
provvedimenti sulla sana gestione dell’economia domestica, sulla
moderazione dei consumi erano in vigore, in forma di regole,
presso il seggio di Capuana a fine XIII secolo(44).
L’Istrumento del 1221, sotto Federico II, menziona una “promissione
di denari in beneficio de extaurita Santissima Trinitatis
praedictae Platea Nidi”. Inoltre, vi è testimonianza sui
seggi nelle Costituzioni di
Federico II, allorquando si fa cenno
all’amministrazione del municipio (gestione dei beni ed entrate
comunali), gestita da un sindaco e due eletti (scelti dal popolo
con una votazione fatta per “grida” in cui erano escluse
donne, bambini, debitori e condannati).
Fece seguito, a metà del XIII secolo,
l’iniziativa di re Manfredi di Svevia che riconobbe ai patrizi
napoletani, ascritti ai Seggi, il sessantesimo dei diritti della
dogana di terra e mare della città di Napoli, affinché
mantenessero “il lustro del loro grado”.
Questa nobiltà godette del diritto di radunarsi in luoghi
speciali per l’amministrazione della città(45). |
©
Napoli - statua di Federico II di Svevia |
Comunque, sotto gli Svevi, come accadde con i
Normanni, chi “volea prendere il cingolo dovea presentare i
suoi requisiti ricercati dalle loro costituzioni ne’ titoli de
nova militia, e de honore militari 59 e 60 lib.3”.
Pertanto, fu confermata la regola circa la nomina di “milite” su
“licenza” del Re e con discendenza da altri cavalieri. Difatti,
la stessa Costituzione di re Guglielmo, De adjutoriis
exigendis...pro faciendo filio milite, stabilì la norma che
i figli primogeniti dei cavalieri dovevano “armarsi cavalieri”.
Tale prerogativa successoria fu, poi, estesa anche ai fratelli
del primogenito tramite la Costituzione di re Federico II,
Comitibus tit. de adjutoriis pro militia fratris.
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Sotto questa dinastia risulterebbe il numero dei
sedili essere passato da tre-quattro a sei.
Gli angioini
si manifestarono, comunque, contrari a tale sistema
organizzativo cittadino, tanto da tentare di limitare un simile
sistema politico di governo, gestito dalla nobiltà urbana
feudataria. Con re Roberto ebbe inizio la riforma angioina
dell’amministrazione cittadina (metà XIII secolo), volta a
ridurre i diversi privilegi nobiliari, come ad esempio il
diritto residenziale di aggregazione, in uso fino all’epoca del
suo regno, per il quale i nobili “mutando domicilio
cangiavano seggio”.
Fu concessa aggregazione nei sedili
anche alle famiglie nobili di altre città, venute ad abitare a
Napoli ed imparentatesi con il patriziato locale (aggregati per
“allectionem”) nell’arco dei 30 anni. Costoro erano, poi,
obbligati a collettare in eguale misura.
Il governo deliberò, poi, per volontà di re Roberto, lo
snellimento dell’organizzazione cittadina riducendo i sedili da
29 esistenti a 5 (Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanova),
eliminando molti seggi minori, ove le famiglie erano estinte o
passate in altro sedile principale. Il seggio di Melari, ad
esempio, fu inglobato nel seggio di Capuana nel 1325, mentre
quello di Griffi totalmente abolito nel 1331. Si verificò, pure,
negli ultimi anni del regno del suddetto sovrano che si unissero
due seggi maggiori: Forcella e Montagna, a causa del venir meno
di un nucleo significativo di famiglie nella piazza di Forcella.
Conferma di detta unione si rinviene in una lite del 1338, sorta
tra i nobili di Capuana e Nido ed altre piazze, circa le
concessioni di re Roberto sugli “onori” e “pesi”
pubblici (terza parte a Capuana e Nido, terza parte a Montagna,
Porto e Portanuova, terza parte al Popolo), in cui si menzionano
solo 6 eletti compreso quello di Popolo(46).
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© Napoli - Corporazione dell'Arte della
Seta -
il libro delle matricole. |
Sotto re Roberto, comunque, si menzionano vari episodi di liti
tra nobili delle diverse piazze, spesso con feriti e morti,
tanto da costringere il medesimo sovrano ad intervenire con la
formulazione di Capitoli (basati su dieci punti) per sedare le
discordie tra le piazze nel 1339.
In merito all’appartenenza dei cittadini al
sedile di Popolo, il medesimo sovrano angioino distinse detta
classe in base alla ricchezza tra “popolo
grasso” e “popolo minuto”: “De Populo qui comuni
vocabulo dicitur grassus hoc est de meliore Populo, et non de
Populo minuto et artistis, qui soliti non sunt, nec expedit eis
talis oneribus et honoribus”.
Questo “popolo grasso”, che guadagnava “molto con
l’industria e col commercio”(facoltosi negozianti, notai,
artigiani), sfoggiava “dissennatamente coi loro lucri”,
mentre l’antica nobiltà si asteneva “da ogni spesa superflua”
e non oltrepassava “una cifra stabilita nell’abbigliarsi”
per non “impoverire il patrimonio degli avi”.
Vi fu, inoltre, volontà reale di
garantire a tale piazza gli stessi diritti e pubblici voti
goduti dalla nobiltà (nel 1380 vi fu a Napoli anche una sommossa
popolare per tale rivendicazione). |
La regina Giovanna perfezionò la suddetta riforma, confermando
il numero dei seggi e rispettivo potere politico. In
particolare, fu abolito definitivamente il seggio di Forcella ed
incorporato in quello di Montagna (con diritto di nominare due
eletti: 1 per Montagna, 1 per Forcella).
Fu
ribadita la chiusura dei seggi minori, a discapito del
decentramento amministrativo, nonché fissato l’obbligo di
aggregazione delle famiglie residenti nei seggi principali.
Inoltre, fu ordinato la redazione dell’elenco dei feudatari, in
cui non comparirono i feudatari delle piazze abolite.
Anche
sotto tale regina scoppiarono tumulti ad opera dei nobili dei
seggi di Nido e Capuana, rivendicando posti di prestigio nel
governo ed uffici amministrativi, come da sentenza di re
Roberto. |
© Napoli - Monumento
funebre
di re
Ladislao |
La
rivolta rientrò(48)
con l’indulto reale, concesso ai ribelli, con l’intento di
placare gli animi e fidelizzare gli spiriti ribelli. Nel 1352 la
stessa sovrana istituì
l’Ordine di Nodo
per coinvolgere una certa moltitudine di cavalieri del regno.
Scrive al riguardo il Torelli
(49)
dell’esistenza a Napoli di “tre
ordini della Nave,
della Leonza,
e
del Nodo,
che gli Antichi Re Napoletani concedevano più tosto di
Confratanze di cavalieri, che d’Ordini meritavano il nome;
perché, secondo il Padre Menestier, non erano confirmati dal
Papa, ne regolati da Statuti”. Secondo questa fonte, re Carlo,
tra l’altro, fu “l’istitutore” dell’Ordine della Nave che aveva
come insegna la famosa nave “che condusse Giasone alla conquista
del Vello d’oro”. Riguardo all’Ordine del Nodo, si rappresentava
con “un laccio di seta d’oro, e di perle, che si legava nel
petto,
o si stringeva nel braccio, non mai concedevasi
se non a’ Cavalieri di gran cuore”.
In occasione del conflitto tra le armate di re
Ludovico d’Ungheria, giunto nel Regno di Napoli per vendicare la
morte del fratello Andrea, e l’esercito angioino della regina
Giovanna, le cronache del tempo confermarono che il governo
della città di Napoli era composto da sei piazze.
A quel tempo i sedili di Capuana e
Nido erano considerati più prestigiosi rispetto alle altre
piazze. |
Re Carlo I d’Angiò confermò, poi, la concessione
sui diritti doganali alla nobiltà di seggio, in special modo a
quella di Capuana e Nido (dal 1334). Detto sovrano, seppur non
introdusse nuove divisioni tra seggi nobiliari e popolari,
accentuò tale distinzione con il rendere più illustre e
rafforzare la nobiltà napoletana.
Tra le prerogative concesse da
re Carlo alla nobiltà, si annovera quella di pagare pur sempre
le “collette” fiscali, ma separatamente dal Popolo, che
aveva propri collettori. Confermò, anche, il privilegio concesso
da re Manfredi di dividere tra i nobili la sessantesima parte
delle entrate fiscali sulle mercanzie (jus
delle
mercanzie) che entravano a Napoli.
Secondo Francesco Palermo,
Carlo I riorganizzò i parlamenti, riducendoli e limitandoli alla
partecipazione della nobiltà feudale (baroni), degli ufficiali
del Regno nonché di quattro deputati per ogni città e due per
ogni terra. I baroni, frattanto, trovarono residenze nei seggi,
specie in quelli di Capuana e Nido, in quanto piazze
rappresentative della “nobiltà feudale” già dai tempi di re
Roberto (i seggi di Montagna, Porto e Portanuova rappresentavano
la “nobiltà secondaria”). Questa aristocrazia partenopea,
sia “nobili” che “feudali” del Regno, giunse a rivendicare la
maggioranza dei diritti e privilegi rispetto al Popolo, che
intendeva invece salvaguardare l’atavico principio egalitario di
rappresentanza(50).
Re Carlo decretò, comunque, che i nobili venissero nominati
cavalieri solo se residenti a Napoli, capitale del regno, tanto
che “la nobiltà Napoletana fregiata di questi titoli ed
Ordini di Cavalleria, si rese più chiara ed illustre sopra la
Nobiltà di tutte le altre città del Regno”.
Lo stesso sovrano, tra l’altro, aveva portato con sé, poi, molti
nobili provenzali e francesi che furono premiati con feudi e
cariche pubbliche, seppur nel rispetto di quelle regole da lui
fissate sul vivere nobilmente “cum armis et equis” nel
proprio rione, nonché sul decoro con il cingolo militare, con
cui si armavano i cavalieri (“Quod nullus possit accipere
militare cingulum, nisi ex parte patris saltem sit miles”)
e sul collettare con i nobili(51).
Il cavaliere milite, così, godette dei privilegi militari,
dell’esenzione dalle tasse, di portare la spada fino al
“gabinetto” del re, del privilegio della caccia, del non obbligo
di battersi in duello con gli “ignobili”. Inoltre, imponenti
cerimonie furono previste per l’acquisizione del cingolo. In
questo periodo, l’aggregazione di una famiglia ad un seggio si
confermò anche per mezzo del matrimonio contratto con un nobile
e dimostrando di essere vissuti nobilmente in Napoli (sia come
cittadini che come forestieri), nonché per mezzo delle stesse
norme dei capitoli generali dei seggi
52).
Il possesso di case nei pressi dei seggi, pure, favorì la
reintegra nei sedili nobiliari, perché ritenuto “atto
possessivo di nobiltà in quel seggio”.
Sotto il dominio degli angioini, in definitiva, fu concesso ai
seggi di rappresentare la capitale ed il Regno, fissando regole
più rigorose nelle aggregazioni rispetto alle precedenti
regnanze, che invece avevano immesso nei ranghi del patriziato
anche esponenti popolari “ascesi a grande ricchezze” o
“nobilmente vissuti” ed ormai esenti dall’attività del
mercanteggiare. Infine,
il Giannone
asserisce che al tempo di re Carlo I il numero dei seggi era
comunque 29 (6 maggiori, 23 minori).
Sotto la giovane regnanza di Ladislao (1386), per frenare
l’avido governo della di lui madre Margherita, sempre pronta ad
imporre gabelle ai sudditi del regno, i seggi napoletani
decisero unitamente di eleggere un collegio di “Otto Signori del
Buono Stato” o buon governo [gli
“Otto” furono Martuscello dell’Aversana (Capuana), Andrea
Carrafa (Nido), Paolo Boccaporto
e Tuccio di Tora (Montagna), Giovanni
di
Dura (Porto), Giulio
di Costanzo
(Portauova), Ottone Pisano e Stefano Marzato (Popolo)]. Costoro, nel ruolo di ministri del re, erano preposti al
controllo delle decisioni governative del Supremo Consiglio,
intervenendo in Tribunale contro le delibere ingiuste.
Gli “Otto” si trovarono a sostenere il partito
“angioino” che lottava per la successione di re Luigi II al
trono di Napoli, avallata da papa Clemente.
Tale fazione,
capeggiata da Tommaso
Sanseverino,
riuscì a prendere possesso della capitale, cacciando il partito
“Durazzesco”, sostenitore di re Ladislao che con l’appoggio del
Papa scismatico, Urbano, si ritirò in Gaeta.
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Re
Alfonso I d’Aragona,
appena entrò in Napoli per la porta del Mercato (1443), sopra un
imponente carro dorato ed accompagnato da un lungo e sfarzoso
corteo(53)
volle visitare i seggi ed incontrare gli eletti. Convocò il
primo Parlamento generale del regno nella capitale e fece
intervenire “gli illustri Principi, Duchi e Marchesi, e gli
spettabili e magnifici Conti e gli altri magnati baroni
feudatari del Regno”.
Il re ritenne opportuno negoziare, subito, con i potenti baroni,
traendoli a sé con i favori e la benevolenza. Furono varati
diversi provvedimenti di riforma in campo tributario e
giudiziario(54)
.
Abolì, ad esempio, le imposizioni “per
capita”,
cioè le collette, sostituite con quelle per focolari (10 carlini
a famiglia). Altro provvedimento riguardò la lotta al gioco
d’azzardo, molto diffuso pubblicamente e privatamente a Napoli
nel corso del XV secolo presso il popolo e la nobiltà. Lo
stesso sovrano accrebbe il numero dei baroni e dei “titolati”
dei sedili (a Nido fu accolto il conte di Borrello e Bucchianico). |
Ingresso trionfale di Alfonso I d'Aragona
in Napoli |
In questi tempi, si entrava “nei seggi per via di
parentele, d’amicizie o per favore reale; ma già ci voleva la
votazione per esservi ammessi”(55).
Ai baroni concesse “il mero e misto imperio”, cioè un
controllo della giurisdizione civile e criminale sui sudditi
vassalli.
Tali segnali di riconoscenza verso i feudatari ed il patriziato
locale e sua atavica organizzazione cittadina non perdurarono
nel corso della regnanza di Alfonso. Nel programma di
razionalizzazione dell’apparato statale,
re Alfonso sottrasse molte attività amministrative-governative
dal controllo baronale per affidarle a personale
catalano-spagnolo o funzionari fedelissimi. Il riscatto del
governo centrale statale andò, così, verso una forma di
“assolutismo monarchico”, tanto respinta dall’antico patriziato,
che fu così descritta dallo storico Santoro:
“sotto Alfonso tutta la nobiltà vecchia era stata miseramente
vessata, che appena vi rimaneva vestiario di tante famiglie
illustri, di che era pienissimo il Reame, ché, ove si numeravano
tanti rampolli delle Casate regali...essendo quasi estinti i
Balzi, i Caldora, i Celano, i Marziani, i Monforti, Camponeschi,
Belmonti, Fasanelli”.
Inoltre, tale sovrano giunse a
sopprimere (10 dicembre 1456) il sedile di Popolo o della Sellaria o Pittato, posto in piazza della Sellaria, con
estromissione dei cittadini dalle faccende pubbliche. Secondo
talune fonti si trattò di un atto grave, uno “sgarbo” verso il
popolo, solo per compiacere una sua favorita, Lucrezia
d’Alagno, la cui casa non godeva di
libera visuale, causa l’edificio in questione.
Altri storici, invece, riferiscono di una motivazione
giustificativa pubblica ai cittadini, in cui Alfonso d’Aragona
giustificò tale soppressione “perché non vole annobiliare la
città, che la strada della Sellaria era bella, se leva quello
Seggio, et una casa, che stava al mezzo, le quali impedivano per
non poster fare la processione, feste e giostre”.
Si ebbero,
così, grossi tumulti(56)
per la richiesta della “restituzione del suo sedile e della sua
rappresentanza”,
tanto da farlo, poi, ripristinare su decisione di
Carlo VIII di
Francia
(con sede collocata nel chiostro di S. Antonio), seppur limitato
nel diritto di rappresentanza politica in ambito amministrativo
(editto 1495).
In occasione del giuramento di fedeltà della città di Napoli al
re Ferrante (Ferdinando I), figlio di Alfonso, i seggi di
Capuana e Nido ebbero “la precedenza del primo luogo”. Difatti,
risultava ancora che “sempre queste due Piazze precedevano alle
altre tre di Montagna, Porto e Portauova”.
Re Ferrante favorì l’attenzione per le attività economiche tra
il corpo dei baroni con cui patteggiò accordi sulla gestione del
commercio interno ed estero. Per il suo interesse all’economia
accolse grossi mercanti di umili origini alla sua corte,
assegnando loro alte cariche statali (come per Francesco
Coppola) e contrariando quella nobiltà
cittadina tradizionalista con atavici pregiudizi.
Seppur una buona parte del patriziato della città reale, la
Universitas Civitatis Neapolitanae, fin dal novembre del 1459
manifestò il proprio fiducioso apporto alla corona aragonese, i
baroni del Regno, memori dell’innata volontà indipendentista,
cominciarono a tramare contro il potere regio. In occasione del
fallito attentato allo stesso re Ferdinando, per mano di alcuni
baroni ribelli (Marzano,
Orsini,
Cantelmo, Caracciolo, Torellas,
Centelles), i gentiluomini e cittadini napoletani confermarono
la propria fedeltà al sovrano, che fu premiata con un decreto di
tutela degli affitti immobiliari, “li pesuni de case”,
nonché riconoscendo una particolare priorità alla città,
rispetto alle altre demaniali.
Con l’obiettivo di rafforzare la “fazione regia” e garantirsi
maggiore fedeltà, re Ferdinando emanò dal 1476 numerosi capitoli
a favore di Napoli, tra cui la “prammatica sanzione” del 1479
con la quale i diritti ed i privilegi dei cittadini napoletani
furono estesi anche ai forestieri ivi residenti. Inoltre, furono
riconosciuti, formalmente, i poteri del corpo degli Eletti dei
seggi cittadini. Lo stesso sovrano emanò delle ordinanze per una
maggiore divisione dei possedimenti territoriali, nonché prese
delle decisioni per rendere più indipendenti i vassalli dai
baroni,
cercando di ridurre il loro potere. Con il crescere degli
arresti e processi di signori, lo scontro con i baroni fu
inevitabile con la grande rivolta citata del 1485, cui fecero
seguito gli anni delle sanguinose vendette contro i più eminenti
ribelli feudatari, anche di origine spagnola.
Sotto il successivo re Federico,
tra il 1496 ed
il 1501, il sedile di Popolo riacquistò stessi diritti degli
altri seggi nobili. Si accentuarono, tal volta, le rivalità tra
le due classi sociali, che si manifestarono principalmente in
occasione della festa del
Corpus Domini; sia nel 1499 che nel 1505 il deputato del
Popolo riuscì ad ottenere il diritto di portare l’ostia, facendo
così ritirare i seggi dalla processione.
Nel 1448, tra l’altro, era stato dichiarato “esser tutti i
seggi pari in nobiltà ed in dignità”,
in virtù del decreto di re Ferrante in cui si annunciava che
“tutti gli abitanti devono essere eguali tra loro, ed ognuno
deve godere liberamente i diritti garantiti dallo Stato”.
Nonostante ciò, i seggi di Capuana e Nido mantennero una loro
regola di imparentamento tra le famiglie residenti, nonché
fondarono loro monasteri per le proprie donzelle. Regnando re
Ladislao, fu concesso agli eletti con il “grasciero” di
soprintendere all’annona ed alle grasce, nonché punire i loro
dipendenti per reati con gli Angioini ed Aragonesi. L’ammissione
al seggio, in tale epoca, continuò a dipendere dalla decisione
della maggioranza delle famiglie o per matrimonio, contratto con
talune di queste ed altri requisiti.
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L’epoca del viceregno spagnolo |
Carlo V,
diventando re d’Italia nel 1530 sugli stati soggetti a
dominazione iberica (Milano, Napoli, Sicilia), giunse a Napoli
nel novembre 1535. La città accolse in trionfo l’illustre
ospite; si formarono due cortei di accoglienza che andarono
incontro all’imperatore ed un’unica cavalcata entrò in città,
passando sotto archi di trionfo, con rappresentazioni
allegoriche, per il Duomo, i seggi, il tribunale di S. Lorenzo
e Castelnuovo. Parteciparono ai festeggiamenti il baronaggio, il
clero (con l’arcivescovo
Carafa),
il governo del municipio (con il sindaco, il principe Ferrante
Sanseverino). Gli eletti offrirono
all’imperatore le chiavi della città, che restituì a loro
dicendo che stavano "in bone mani de vassalli soi fedelissimi”.
In epoca di dominazione spagnola, si potenziarono talune cariche
e non si effettuarono significanti cambiamenti
nell’amministrazione dei sedili. L’eletto del Popolo ottenne la
facoltà di poter far ricorso al Viceré in casi di disaccordo con
gli altri rappresentanti. La figura del sindaco, scelto tra le 5
piazze, si affermò maggiormente, tanto da presenziare alle
convocazioni dei parlamenti o alla venuta dei Viceré e dei
personaggi reali in città.
In tale periodo, quindi, il sindaco
rappresentò “la città, il baronaggio e le città demaniali”.
Nel parlamento generale, che si riunì in S. Domenico Maggiore il
23/25 aprile 1504, inaugurando il vicereame, con i baroni,
prelati, eletti dei sedili e rappresentanti delle città
demaniali si fissarono i nuovi prelievi fiscali, voluti dal
viceré
Consalvo Fernandez de Cordova. La raccolta erariale portò
circa 300 mila ducati nelle casse di re Ferdinando e regina
Isabella (le unità familiari, fuochi, contribuirono con 3 tarì,
i baroni con l’adoa, i prelati con metà delle rendite e la
stessa Napoli, pur godendo di esenzione, con 11 mila ducati(57)).
Regnando, poi, il viceré Don
Pedro de
Toledo, dopo gli accennati dissapori con il patriziato
cittadino per l’Inquisizione spagnola (1535-47), vi fu un
tentativo (1554) da parte di molte famiglie “nobilitate con
feudi” e “signori di vassalli”, ma non aggregate ad alcuna
piazza napoletana, di richiedere all’imperatore Carlo V
l’aggregazione ai sedili napoletani o la concessione di un nuovo
seggio per “godere degli onori”.
A questa iniziativa senza successo, fece seguito
altra (1557-1558), voluta da varie famiglie spagnole in Napoli
che rivolsero supplica a
re Filippo II
senza, però, essere esauditi.
Al riguardo Ettore
d’Aquino scrisse nel 1557 un “Breve
discorso sopra la giusta pretendenza d’avere parte nel Governo i
Cavalieri che non sono chiamati nelli Seggi di Napoli”, in
cui vennero formulate al re le seguenti richieste:
1- una certa nobiltà “forestiera”, come un rilevante numero di
baroni, (circa 80 famiglie) adempiendo agli oneri e “pesi” della
città a favore della corona, chiedevano di essere rappresentati
nel governo cittadino al pari del patriziato di seggio;
2 - fu chiesto la concessione, a questi fedeli
cavalieri napoletani o spagnoli di uno o due nuovi seggi da
edificarsi nel quartiere di S.Giacomo-via Toledo, oppure il
ripristino del sedile di Forcella, ormai inglobato in quello di
Montagna. Tale richiesta di incrementare il numero dei sedili fu
giustificata, causa l’ampliamento urbanistico della città e
crescita della popolazione;
3 - fu pure fatta domanda di aggregazione di tali
cavalieri in quei seggi, ove risultava ridotto il numero delle
famiglie. Tali rivendicazioni, formulate con lettera scritta,
vennero anche sostenute da Gio. Donato
Marra,
D. Gio. d’Ayerbo, Berardino Rota, Camillo
di
Tocco. Costoro motivarono positivamente la presenza di nuove
famiglie nobili in Napoli, in quanto tale ingresso avrebbe
incrementato i pagamenti fiscali a favore della Regia Camera.
Fu, così, annotato “ alli beni loro pagano etiam che venissero
ad abitare in Napoli”, ai quali adempimenti fiscali fece seguito
la possibilità di affittare le Dogane regie, quelle del sale e
del vino. |
©Napoli, via Toledo - dipinto su volta ingresso palazzo d'epoca. |
Del resto, in quel periodo le piazze avevano
accresciuto i requisiti necessari alle aggregazioni, come
testimoniato dal paragrafo XII, “Sull’ammissione dei Gentil’homini
forestieri con rite-stile-consuetudine-capitali et osservanze”,
dei Capitoli et Gratie, concesse alla città di Napoli dal re
Filippo alla data del 25 gennaio 1557”,
governando il viceré D. Federico Alvarez de Toledo. A
quest’epoca appartiene la legge del 9 ottobre 1581 con la quale
si stabilì che nelle aggregazioni ai sedili non si doveva tener
conto delle ricognizioni o rinunce fatte a favore “de’ pretensori”.
Lo stesso sovrano impose, poi, l’obbligo dell’assenso reale su
qualsiasi aggregazione,
azionando un sistema di controllo e monitoraggio sulla nobiltà
cittadina, visti i vari tentativi insurrezionali di metà XVI
secolo. Difatti, il 26 agosto 1581 fu decretato che le famiglie,
richiedenti l’aggregazione o la reintegra ai seggi, dovevano
ottenere prima la “cedola reale”, il permesso del sovrano ad
aprire scrutinio, poi l’esito favorevole da parte dei sedili ed
infine la ratifica del sovrano.
Circa i giudizi di reintegra erano discussi nelle due Ruote del
Consiglio di S. Chiara, con la partecipazione di cinque giudici
spagnoli e di almeno otto consiglieri del Consiglio Collaterale
ed in presenza del Viceré.
Re Filippo II, con ordine sovrano del 27 maggio 1623 stabilì che
anche il magistrato fiscale doveva intervenire in detti processi
di giudizio, quale “parte formale” nelle sentenze definitive.
L’ordine reale del 21 agosto 1643 fissò, poi, il Consiglio
Collaterale, quale sede di verifica delle richieste di
aggregazione/reintegra previa votazione e parere dei reggenti
della Regia Cancelleria. Tale funzione giudicante ritornò alle
due Ruote del Consiglio di S. Chiara o Regia Camera, con
l’intervento di tutti i consiglieri capi di Ruota e del Regio
Consiglio Collaterale ed in mancanza di uno dei consiglieri
doveva intervenire il viceré o presidente del Consiglio (Ordine
del 30 dicembre 1666). Il dispaccio successivo del 19 dicembre
1711 stabilì anche che le cause di reintegra dovevano essere
trattate con tutte e quattro le
Ruote del Sacro Regio
Consiglio, nonché con i 24 consiglieri, il fiscale ed il
voto del Regio Collaterale Consiglio ed il viceré, accettando
così nel governo la funzione di verifica della legittimità
nobiliare. |
Infine, altro tentativo di riconoscimento vi fu
nel 1697, allorquando le famiglie
Aquino,
Eboli,
Filangeri,
Gambacorta,
Orsini,
Franchi,
Mendozza ed altre chiesero a re Filippo IV di “ergere un nuovo
seggio” senza però ottenerne consenso, viste anche le vicende
tumultuose del 1647. Del resto, in passato, c’erano state nuove
aggregazioni, come nel 1503-1507, allorquando furono aggregati
molti nobili e viceré, nonostante i seggi ottenessero che per
l’ammissione necessitava il consenso unanime di tutti i
componenti del seggio, nonché il rispetto delle regole-capitoli
fissate dai seggi.
Il seggio di Capuana, ad esempio,
fu il primo sedile ad adottare nel 1500 la già menzionata regola
di ammissione di nuove famiglie con i quattro quarti “di nome, e
d’armi”, come quella dell’imparentamento alle famiglie nobili
residenti. |
© Napoli - particolare di
una delle sale della Regia Camera |
Anche il seggio di Nido (oltre ai capitoli del
1500, 1507 e 1524), in data 22 aprile 1562, fissò che la domanda
di aggregazione di nuove famiglie doveva svolgersi “per
scritture pubbliche ed autentiche”, portando come prove di
nobiltà “li quattro quarti, videlicet, lo quarto del padre e
de la madre del padre; lo quarto de la madre de lo pretendente,
e de la madre di sua madre, che siano nobili anticamente”.
Il processo di verifica durava circa un anno, come da antiche
consuetudini che “dal tempo che furo deputati li seggi che
non ave memoria d’uomo in contrario, sono stati e sono, che
quando uno vuole entrare e godere gli onori e prerogative
d’alcuno seggio, lo dimanda per grazia a quello Seggio; e quando
piace alli gentiluomini di esso seggio accettarlo, esaminando le
qualità convenienti e spettanti alla nobiltà, è stato aggregato;
e quando non piace alli gentiluomini del seggio, è stato
repulsato: al che mai alcuno se ci è intromesso contro la
volontà de’ Nobili”.
Il seggio di Montagna, che già dal 1420 disponeva
di un regolamento, nel XVI secolo perfezionò detta normativa
d’ammissione nel 1500.
Il diffondersi della pubblicazione dei
Capitoli servì a controllare le candidature nobiliari, visto che
l’aggregazione ad una piazza, comunque portava prestigio e
potere, specie durante il viceregno spagnolo. Di fronte al
consolidarsi di questi regolamenti restrittivi dei “seggi
chiusi” (ove le aggregazioni necessitavano del gradimento o del
veto della nobiltà già iscritta)(58),
si andò affermando una “nobiltà fuori seggio” non aggregata o
riunita in collegi nobiliari civici dei seggi chiusi.
Dal decreto di Filippo II (1581) e da quello
successivo del 18 marzo 1664, con i quali si accentrò nelle mani
del sovrano il diritto decisorio di aggregazione e di reintegra
di nuovi nobili nelle piazze napoletane e di quelle delle
provincie, necessitò sempre l’autorizzazione reale per il
seggio, alla quale seguiva conferma con i voti delle piazze. Si
nominò anche una commissione di cinque consiglieri ed un fiscale
in un seggio chiuso, onde sentenziare sulle istanze. Si portò,
poi, il numero dei consiglieri a tredici, incluso il Presidente
del Sacro Consiglio, con il compito di sentenziare sulle istanze
giudiziarie di aggregazione e reintegrazione, già respinte dai
seggi.
Inoltre, il 5 febbraio 1601 nella nomina della
Deputazione della Real Cappella del
Tesoro, vennero inseriti altri dodici membri presi dai seggi
(due per seggio) con funzioni di protezione del relativo tesoro
ivi raccolto.
I sedili, nel 1666, chiesero a re Carlo II di
riottenere completa libertà di aggregazione, ma detto sovrano la
negò con dispaccio del 30 dicembre del medesimo anno,
confermando il diritto reale.
Il re, comunque, poteva ordinare “di motu proprio”
l’aggregazione di una famiglia al seggio. Successivamente, nel
1688, il medesimo Carlo II fissò il divieto per i ministri e
loro familiari, come per coloro i quali occupavano cariche
pubbliche, nel richiedere l’aggregazione ad un seggio(59).
Nel 1684 lo stesso re Carlo II d’Asburgo decretò nuovamente la
soppressione del sedile di Forcella, ormai fuso in quello di
Montagna. Proprio in questo periodo numerosa nobiltà spagnola
ebbe, comunque, facile accesso ai seggi partenopei.
E’ interessante l’elenco incluso in un
manoscritto del 1693
per comprendere l’accresciuto numero di nuove famiglie
napoletane, o forestiere, salite di lignaggio e desiderose di
appartenere alle piazze. Le famiglie risultano: Ametrano,
Anastasio, Angelis,
Aquino, Cioffo
Favilla, Maffeo,Viespolo, Zenaglios,
Anna,
Altomari, Benevento, Bracuto, Caputo, Cimino, Ardia, Campalo,
Cordona, Fiorillo, Marciano, Pepe, Fulgore, Mirella, Vernassa,
Pisano, Luongo, Pristalda, Palo, Petagna,
Vargas, Raitan, Egittio,
Valletta,
Cito, Marano, Petroné, Vandain,
De Luca, Valdetaro, Venuto, Staivano, Crasso, Apicella,
Calà, Capobianco, Canaliero, Filippo,
Ereitas, Gagliani,
Garofalo,
Giannattasio,
Grimaldi di Benedetto,
Grutter, Invino, Lucarelli,
Mezzacapo,
Miglioré, Natalé, Vidman, Nacarella,
Ponte, Stefano, Salvo, Rovegno, Vaaz, Vignapia, Parise,
Palma, Disanello, Sclano, Orefice.
Nel 1707, all’epoca della “congiura
di Macchia”
si rinviene altra notizia sulle piazze napoletane circa la
contrattazione con il viceré spagnolo del loro donativo del due
per cento sulle entrate feudali, burgensatiche ed ecclesiastiche
della città e del regno in cambio:
1 - della possibilità di fare nuove iscrizioni ai
seggi;
2 - della concessione dell’ufficio del Montiero
maggiore e del titolo di “Grandi di Spagna” per il “Corpo della
città”;
3 - della abolizione della ruota del Cedolario,
come da richiesta del “Corpo del baronaggio”, per allentare il
pesante regime fiscale gravante, circa 29 mila ducati a favore
del Fisco nel 1704;
4 - della estensione della successione feudale al
quinto grado dei collaterali, come richiesto dal “Corpo del
Baronaggio”.
Tali richieste furono accolte dalla Spagna, solo in parte e con
grosse limitazioni. Molte famiglie dei seggi nobiliari decisero,
pertanto, di appoggiare la spedizione di occupazione del regno
da parte dell’Austria, a patto della concessione dei suddetti
privilegi da parte dell’imperatore.
|
Con l’avvento della
dinastia dei Borbone, la
struttura amministrativa cittadina inizialmente non fu variata.
I seggi accolsero re Carlo di Borbone, il quale invitò gli
eletti a proporre l’abolizione di alcune imposte. Le piazze,
però, non intesero accettare l’invito, in segno di gratitudine
verso la nuova regnanza. Inoltre, i medesimi sedili raccolsero
un donativo di circa un milione di ducati, quale contributo
cittadino alla successiva spedizione di Sicilia del sovrano
Borbone. L’impresa siciliana si attuò dopo il giuramento di re
Carlo, dinanzi agli eletti della città.
Durante la regnanza borbonica, la legislazione
sulle piazza e sua nobiltà fu molto variegata e ricca di
precisazioni. Le principali leggi emanate furono:
L.del 15 giugno 1742 (i discendenti di
famiglie un tempo ascritte potevano chiedere giudizio di
reintegra “se da cento anni prima dell’introduzione del
giudizio” già godevano degli “onori del Sedile”);
L. del 25 luglio 1749 (fu prescritta l’aggregazione ai sedili
per quelle famiglie che nell’arco di un secolo non avevano più
rivendicato i diritti di reintegra ai rispettivi seggi, tanto da
considerarle “estinti, perenti e prescritti in tutto e per
tutto”);
L. del 25 gennaio 1756; L. del 19 febbraio/ 3 dicembre 1757 e L.
del 19 gennaio 1758 (l’aggregazione ai sedili non produceva
nobiltà se mancava il regio assenso, con conferma nella L. del
27 ottobre 1798);
L.del 9 luglio 1757 (l’aggregazione doveva essere votata a
scrutinio segreto nell’ambito dell’assemblea di tutti i
rappresentanti del sedile); L. del 27 agosto 1757 (divieto a
tutti i membri delle piazze di pretendere e ricevere soldi per
l’aggregazione); L. del 1 giugno 1759; L. del 20 giugno 1763; L.
del 1 dicembre 1770; L. del 18 febbraio 1771 (conferma la non
prescrizione dei diritti di rivendicazione dei gradi di nobiltà
agli eredi di antiche famiglie); L. del 27 novembre 1780; L. 12
settembre 1800 come le L. del 13 aprile e 6 ottobre 1851 (già
con L. del 21 gennaio 1746, si fissa il pagamento dei diritti
fiscali sia per aggregazioni che per reintegre al sedile).
Infine, si annoverano i reali rescritti e dispacci.
Il R.D. del 1 agosto 1738, re Carlo di Borbone fissò che le
cause di reintegra dovevano essere trattate davanti ai 4 capi di
Ruota della Camera di S. Chiara, al fiscale ed al Sacro
Consiglio a Due Ruote giunte. Il successivo R.D. del 11 maggio
1739 ordinò che dette cause dovevano trattarsi presso il Sacro
Consiglio a Due Ruote giunte, con i 13 ministri tra cui il
presidente e i capi di Ruota della Camera di S. Chiara.
A seguito delle continue proteste (in particolare quella del
1746) dei sedili per abusi e raggiri dei tanti aspiranti nobili,
che spesso si rivolgevano alla Camera di S. Chiara per ottenere
i richiesti riconoscimenti, furono emessi diversi e più
specifici dispacci finalizzati a migliorare tali controlli.
Così fecero seguito:
R.D. del 16 ottobre 1743 ed 8 agosto 1761 (il
Sacro Regio Consiglio si occupa definitivamente dei giudizi di
nobiltà); R.D. del 2 settembre 1748 (conferma del divieto del
1688 per i ministri e loro familiari di intentare giudizi di
reintegra o votare in simili cause); R.D. del 30 aprile 1754 (la
Camera di S. Chiara svolge funzione di supervisore sui giudizi);
R.D. del 20 giugno 1763,del 6 aprile 1772, del 28 marzo 1779 (la
Camera di S. Chiara si specializza nelle aggregazioni e
reintegre dei nobili ai sedili e delle autorizzazioni per il
“Cordon dei cadetti”); R.D. del 20 maggio e 17 agosto 1851.
Nel 1799 la
Repubblica Napoletana, subentrata per un periodo breve a
tale regnanza, sciolse i sedili, perché ritenuti dalla borghesia
retaggio di soli privilegi aristocratici, tanto da garantire
alla stessa il libero accesso all’amministrazione cittadina.
Decaddero, così, tutte le leggi, decreti ed ordini sulla
nobiltà.
Con il ritorno del legittimo sovrano al trono di
Napoli, Ferdinando I intese mantenere questa delibera giacobina
(legge del 1799), autorizzando l’editto reale del 25
aprile/ottobre 1800, che sciolse il corpo municipale cittadino
con le sue rappresentanze familiari, causa il tradimento di
molti loro esponenti complici dei francesi. Seguì l’istituzione
del “Supremo Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno” e
venne fissata la compilazione di quattro registri per la
registrazione delle famiglie nobili nel regno:
a. Libro d’Oro per le famiglie ascritte ai cinque
sedili;
b. Libro delle famiglie feudatarie da più di
duecento anni;
c. Libro delle famiglie investite dall’abito di
giustizia dell’Ordine di Malta;
d. Libro dei sedili chiusi del Regno. |
© Napoli - particolare di
Palazzo Reale |
La legge del 2 agosto 1806 sulla successione dei
titoli precisò, poi, che i titoli di principe, duca, conte e
marchese, concessi legittimamente, dovevano restare ai
rispettivi possessori per essere trasmessi ai diretti
discendenti “in perpetuo”, con ordine di primogenitura e nella
linea collaterale fino al quarto grado.
Fu anche emessa legge, “Notamento delle diverse autorità ed
ordine col quale si procede ne’ solenni baciamano, nel reame
delle Due Sicilie”, per la quale i cavalieri di Ordini
cavallereschi nazionali potevano aspirare alla “nobiltà
generosa” trasmettibile.
I sedili vennero soppressi definitivamente dalla
regnanza duosiciliana, perché sospetti di aver favorito la
diffusione delle idee rivoluzionarie. Seguì altro editto del 8
agosto 1806 con il quale gli eletti di S. Lorenzo divennero
corpo cittadino. Il 22 ottobre 1808 sorse, quindi, il municipio,
il cui primo sindaco fu eletto a Napoli il 2 dicembre dello
stesso anno.
Seguì la legge del 10 dicembre 1812 con la quale fu sostituito
il Supremo Tribunale con il “Consiglio dei Maioraschi”,
rimpiazzato poi dal Ministero e Real Segreteria di
Stato di Casa Reale, a sua volta cambiato con il Ministero e
Real Segreteria di Stato di Grazia e Giustizia
Si continuò a legiferare nel regno delle Due
Sicilie sulla nobiltà e seggi in data 7 settembre 1839 e 7
ottobre 1840. Queste leggi dichiararono la sospensione
dell’iscrizione di nuove famiglie al Libro d’Oro fino a nuove
disposizioni reali. |
Infine, fu nominata con legge del
23 marzo 1832 la “Real Commissione dei titoli di Nobiltà”, che
cessò di operare con il decreto luogotenenziale del 17 febbraio
1861, sotto
dittatura garibaldina.
L’istituto della Consulta Araldica, avviato con legge del 10
ottobre 1869, del nascente regno d’Italia fu, quindi,
autorizzato a trattare questioni nobiliari sul territorio
nazionale.
Tra gli ultimi atti legislativi
della dinastia Borbone vi furono il R.D. del 1845, che confermò
l’abolizione dei seggi nel Regno, la legge del 20 maggio e 17 agosto 1851
(riprendeva la L. del 25 gennaio 1756) che dichiarò
l’aggregazione ai sedili costituire per gli ascritti requisito
di riconoscimento della sola “nobiltà generosa”.
|
3. L’organizzazione dei sedili
Il reticolo urbanistico dei sedili |
Dal periodo della regnanza normanna a quella
angioina con la sua riforma, il numero dei seggi era così
composto:
1 - 4
Seggi Maggiori,
corrispondenti topograficamente ai 4 quartieri più antichi della
città di Napoli
2 - 25
Seggi Minori
all’interno di quelli Maggiori. Questi sedili si suddividevano,
a sua volta, in:
A)
Ottine
per il popolo; B)
Tocchi
o Tocci per la nobiltà.
Molti di questi seggi minori presero il nome
dalla famiglia nobile più potente ivi residente, nonché dalla
chiesa presente nel quartiere, come dal luogo stesso. Tale
moltitudine di seggi, distribuita su tutta la città in forma di
maglia reticolare, garantiva un più funzionale decentramento
dell’ordinamento amministrativo ed una maggiore autonomia
governativa sulle decisioni territoriali. Ciò è documentato sia
dalla lettera di S. Gregorio Magno ai napoletani, sia dalla
scrittura d’immunità concessa da re Tancredi agli amalfitani
(1190).
Simile modello di organizzazione amministrativa
si diffuse anche in altre città regie del Mezzogiorno, quali ad
esempio Aquila, Lucera, Sorrento, Trani e Cosenza, seppur anche
nelle città demaniali si formarono aggregazioni nobiliari.
Dalla riforma di re Roberto d’Angiò (metà XIII
sec.), il numero dei seggi scese a cinque e successivamente a
sei, includendo quello di Popolo, restando invariato fino
all’epoca della loro abolizione nel XIX secolo.
|
Il seggio, oltre ad essere formato spesso da un
edificio a pianta quadrata
con una piccola sala per riunioni ristrette, aveva anche un
locale adibito a sala per le assemblee, ove si riunivano i vari
delegati iscritti delle aree rionali dei quartieri. Tali
delegati erano scelti dagli iscritti al seggio che si chiamavano
“cavalieri di seggio”, mentre le consorti erano dette “dame di
piazza”. Costoro provvedevano, in assemblea, alla nomina annuale
dei rappresentanti di seggio, chiamati “consoli” nel basso
medioevo e poi
eletti
( sei deputati per ogni seggio, cinque eletti per quello di
Nido, per un totale di ventinove rappresentanti con età
superiore a ventuno anni) “pel mandato che ricevevano di
elezione dal rispettivo seggio”.
Gli eletti erano rappresentanti delle principali famiglie
aristocratiche, residenti nell’area, preposti ad occuparsi dei
pubblici affari.
Costoro si radunavano periodicamente nel sedile
per discutere in pubblico dibattito di varie problematiche
cittadine, per le quali faceva seguito una specifica delibera.
Questi esponenti, comunque, appartenevano a famiglie che erano,
a detta dell’Ammirato,
“un’ordine di discendenza, la quale trahendo una persona
principio, e ne’ figliuoli, e da’ figliuoli a nipoti, e così per
conseguente da’ nipoti a pronipoti ampliandosi”.
Gli eletti,
su scelta del seggio, potevano recarsi a corte per riferire al
sovrano quanto era stato deliberato
dall’assemblea della piazza. Gli eletti, inoltre, avevano
diritto di sedere nel Collaterale e precedevano negli onori i
feudatari ed i supremi ufficiali del regno in tutte le
solennità. Venivano consultati periodicamente dai sovrani,
quando doveva essere promulgata una legge, rappresentando così
un prezioso organo di rappresentanza cittadina, atto a
scongiurare eccessive politiche fiscali.
Gli eletti dei sedili,
con i feudatari del regno (principi, duchi, marchesi, conti,
baroni) nonché con i sindaci, formavano il
parlamento dei deputati
della città di Napoli, che deliberava su numerose e variegate
iniziative (donazioni alla corona: quelle del
1507-1520-1523-1524, la difesa militare, le campagne di guerra,
accordi economici-commerciali etc).
Esisteva, poi, un parlamento generale che riuniva esclusivamente
i baroni del Regno delle varie province per decisioni urgenti ed
importanti sulla sicurezza dello stato o sulla raccolta della
regalia reale(60).
L’ascrizione al seggio di nuove famiglie avveniva per il tramite
di una commissione giudicante interna (poi sostituita nel tempo
da altri organi), atta ad esaminare tutte le prove nobiliari (il
vivere “more nobilium”), e si formalizzava attraverso una
cerimonia con regole fissate dai capitoli del seggio. Tra le
antiche prerogative, sull’esempio dei Tebani, si diffuse quella
di ammettere tra la nobiltà “que’ del popolo, ch’eran ascesi a
gradi di ricchezze, e quegli ancora che per lungo tempo erano
nobilmente vissuti, ed avevano lasciato il mercantare, ed altri
simili mestieri, o che per lungo tempo erano vissuti con arme e
cavalli”. Si giunse, poi, ad aggregare sulla base del solo
principio del “vivere nobilmente”, sia nel caso di “cittadini
come forestieri”, nonché in base al contrarre “parentela co’
Nobili” o al vivere in un quartiere del seggio.
Il Mazzella,
invece, ha evidenziato nella sua opera che taluni requisiti
richiesti per appartenere alle classi nobili dovevano essere:
1.- “l’antichità”, cioè il “contar molti
gradi, o come dir si debbia molte generationi, o’ ver molte età”;
2.- “lo splendore”, cioè “honori e dignità
avute…baronaggi e titoli..le lettere, il valor militare, la
fede, la liberalità, e la giustizia, e soprattutto la santità,
la patria”.
E’ da evidenziare che i sedili, seppur erano
autorizzati a questionare con controlli sui requisiti necessari
al patriziato, non entrarono mai in merito nelle controversie
sui diritti successori al titolo tra gli eredi. Taluni seggi,
come Nido e Capuana, giunsero, invece, ad espellere quei
personaggi ritenuti non più degni di appartenere alla piazza, a
causa di un loro comportamento nefasto o per fatti incresciosi.
Re Filippo II stabilì, come già detto, che l’aggregazione di
una famiglia al seggio doveva ottenere la nomina regia. Difatti,
sotto tale sovrano fu respinta la richiesta del menzionato
gruppo di nobili di aprire le “piazze” ad altre famiglie,
aumentandone il numero.
Il viceré di Napoli, don Giovanni Mariquez de Lara, giustificò il sovrano rifiuto con l’aver
voluto evitare un contrasto tra la nobiltà di Piazza e la
nobiltà fuori Piazza o extra sedile.
Tale diniego reale intese non modificare l’organizzazione
dell’antico governo cittadino, nonostante l’espansione della
città di Napoli con suo modificato assetto urbanistico e
consequenziale crescita degli abitanti, nonché la riduzione del
numero degli esponenti di alcuni seggi (Porto e Montagna) a
causa dell’estinzione di talune famiglie ascritte.
In sintesi fu
preclusa, alla più recente nobiltà ed al ceto borghese, la
possibilità di entrare a far parte del governo amministrativo,
rappresentando, inoltre, un primo tentativo palese della
monarchia di indebolire il governo dei sedili, garante
dell’antico sistema oligarchico aristocratico. Del resto, i
sovrani ed i viceré, videro nei sedili, per la loro forza
sociale e politica, la costante minaccia degli equilibri
governativi all’interno della città e del regno. Ciò spiega,
difatti, i divieti imposti nel corso dei secoli alle piazze a
riunirsi in assemblee, senza autorizzazione reale
giustificatrice. Qualora il governo reale veniva a conoscenza di
iniziative del genere da parte dei sedili, provvedeva allo
scioglimento delle adunate con l’uso della forza. |
|
Era, anche, norma che per ogni seggio si
scegliesse un eletto tra i sei nominati, (per un totale di sei
per le piazze nobili, che si appellavano “capitani dei nobili”,
ed uno per il Popolo, detto “capitano di strada Popolare”), con
mandato annuale, ai quali si affidavano le chiavi di ogni porta
cittadina , una copia ai capitani ed altra all’eletto del
Popolo.
Nel marzo del 1655, ad esempio, erano : Nido (Pompeo
Pignatello di Montecalvo),
Montagna (Antonio Muscettola),
Portauova (Andrea
Capuano), Porto (Luise
Macedonio), Capuana (Filippo
Capecelatro).
Costoro, inoltre, sotto la presidenza di un magistrato di nomina
regia (“Grassiere”)(61)
designavano i magistrati del Tribunale di S. Lorenzo Maggiore,
chiamati ad adempiere a talune funzioni governative della città
(magistratura municipale). Tali rappresentanti si riunivano
nella sala del Capitolo del convento omonimo, sede del
Tribunale. Il Consiglio del Tribunale, formato dagli eletti,
durava in carico un anno e prendeva le decisioni sulle necessità
dell’amministrazione della città, oltre a rilasciare attestati
di nobiltà ad esponenti della nobiltà “extra sedilia”.
Il Tribunale di San Lorenzo costituì speciali
“deputazioni” per favorire la normale amministrazione. Le
deputazioni erano nove con precise mansioni:
a)
Prima Deputazione
(Pecunia) si occupava della gestione del patrimonio cittadino:
tasse e pratiche fiscali. L’esattoria delle gabelle era affidata
ad un esponente di famiglia ricca. Per la consuetudine di
affidare tale servizio, diretto da un “Portolano”, a personaggi
della famiglia Moccia, nel tempo si
diffuse la costumanza popolare di indicare con il termine
“moccia” qualsiasi tipo di esazione materiale.
b)
Seconda Deputazione
svolgeva funzione di controllo e revisione sull’amministrazione
cittadina.
c)
Terza Deputazione
(Fortificazioni) era preposta al mantenimento delle opere di
fortificazione cittadina.
d)
Quarta
Deputazione
(Mattonato/Fortificazioni/Acqua) si occupava della
fortificazione interna, dell’approvvigionamento idrico, dei
fabbricati edili e manutenzione delle strade. Tale deputazione,
formata dai vari rappresentanti di seggio (ad
esempio D. Francesco
Capuano fu
deputato nel 1741 per il seggio di Portanova, come lo fu il di
lui figlio Gio. Battista nel 1767 e 1773 ), si interessò spesso
della confacente sistemazione urbanistica. Tra gli ultimi piani
di sviluppo urbanistico è noto quello ben articolato del 1789 di
Vincenzo
Ruffo, approvato dal Tribunale
di S. Lorenzo. Circa i compiti di manutenzione delle strade
cittadine, si ricorda che queste nel ‘500 erano pavimentate con
grossi mattoni di argilla, cotti nell’isola di Ischia.
Successivamente, tale pavimentazione fu sostituita con ciotoli
di fiume, “alla romana”. Nel ‘600, infine, si utilizzarono
grosse squadrature rettangolari di selce o piperno (“valovo” o
basolo).
e)
Quinta Deputazione
(Capitoli) si occupava della conservazione dei capitoli, con
privilegi e garanzie concessi alla città e regno, nonché della
rispettiva attuazione. Si aggiunse alla deputazione quella dei
“pregiudizi” con compiti di nomina del primo ambasciatore alla
corte di Madrid, onde denunciare eventuale soprusi contro la
città. Tale Deputazione fu spesso contrastata dal viceré con
l’appoggio del popolo per timore di una perdita di potere.
f)
Sesta Deputazione
(Monasteri) si occupava dei rapporti con i monasteri, curando
contatti e giurisdizione. Quando tale funzione fu assolta dal
re, la deputazione fu soppressa.
g)
Settima Deputazione
tutelava con una continua opera di vigilanza il privilegio
(concesso da Papa Paolo III ed imperatore Carlo V) di non far
entrare in Napoli la Santa Inquisizione. Sorse in conseguenza
dei citati tentativi di introdurre detto tribunale a Napoli ad
opera di vari Vicere’, a cominciare da Raimondo di Cardona, che
autorizzò nel 1509 l’istituzione del Tribunale
dell’Inquisizione, generando un immediato tumulto popolare
durato quasi undici anni.
h)
Ottava Deputazione
si occupava della zecca formata da ventitré membri, che si
recavano alla zecca quando necessitava mettere in circolazione
nuove monete. Fu abolita ed inglobata dalla Regia Camera della
Sommaria.
i)
Nona Deputazione
si occupava della gestione delle riserve di olio, presso i
depositi (cisterne), necessarie nei periodi di occupazione. Era
formata da un deputato per ogni seggio per meglio gestire
l’annona olearia. Per tale attività i banchi cittadini mettevano
a disposizioni un capitale di 4000 ducati che venivano
restituiti. Commercianti e bottegai d’olio erano obbligati a
comprare l’olio dalla Deputazione. Questa fu abolita dopo i
tumulti per l’Inquisizione perché l’annona dell’olio e del grano
dovevano essere sotto il controllo diretto del viceré. Fu, poi,
il viceré conte Olivares che fece approvare l’istituzione del
Tribunale dell’Annona e costruire nel 1596 un edificio-magazzino
per le farine nella strada del molo Piccolo, su progetto
dell’architetto Domenico Fontana. Altro edificio fu costruito
nei pressi di Port’Alba, vicino alle mura angioine. Fu chiamato
dal popolo “o fosse u ggrano
“ per la presenza di tanti
fossi serbatoi di contenimento del grano.
Tra le Deputazioni straordinarie si aggiunse
quella “per la peste” del 1656, detta, poi “della Salute”. Circa
quest’ultima Deputazione le cronache hanno scritto: “questo
tribunale della Deputazione si tiene ogni giorno, cossì la
matina come il doppopranzo, nella Doana della Farina vicino al
Molo, e li Deputati sono trentasei, cioè sei per ogni piazza,
inclusavi quella del Popolo”.
A gennaio del 1691 i deputati erano: Nido (A.
Carafa, G. B.
Galluccio, G.
Pignatelli, L.
Riccio, L.
Capece, G.
Dentice), Montagna (P.
Russo, G. Sanfelice, G.
Cicinello, C.
Carmignano, R.
Coppola),
Portanuova (A.
de Ponte, N.
Mormile, F.
di
Liguoro, V.
Capoano, P.
Moccia),
Porto (N.
Arcamone, C.
Ruffo, C. Strambone, F.
di Gennaro, F.
di Dura), Capuana (A.
Capecelatro,
M. Filomarino, F. Guindazzo),
Popolo (G. A.
Vitagliano, D.
Longo, A.
del Tufo,
P. Vitolo, L. Frabicatore, S. di Franco). Inoltre, tra i medici
addetti alle visite vi fù il famoso Marco Aurelio Severino.
Il Tribunale di S. Lorenzo si occupava di varie
corporazioni, quale quella dell’Arte della Lana, molto potente e
collegata allo sviluppo di allevamenti locali. |
|
Le funzioni socio-amministrative del seggio e
suoi rappresentanti |
Le questioni trattate dai delegati presso il
sedile erano di natura privata e pubblica. Le competenze
attribuite ai sedili riguardavano la gestione fiscale della
“annona”, le cariche pubbliche, porti e torri (specie in epoca
angioina). I seggi svolsero, in definitiva, una vera e propria
attività civica con vere funzioni di governo (giudiziarie,
giuridiche, militari, religiose) estese anche al reame.
L’insieme dei sedili, difatti, rappresentava il Comune.
Tra le
specifiche competenze si annoverano:
1. Le piazze badavano all’ordinamento edilizio e
tutela della pubblica salute. Si occupavano della sorveglianza,
nonché delle acque oltre ad assistere al conio della moneta,
controllandone il valore nominale.
2. I seggi, inoltre, concedevano lettere di
cittadinanza ed autorizzavano patenti di nobiltà, tramite il
Tribunale di San Lorenzo, a tutta l’aristocrazia del Regno. Il
sedile di Portanuova elargiva anche riconoscimenti governativi,
come promozioni agli
Ordini cavallereschi dell’Agata e Leonza.
3. Tra i compiti svolti vi fu anche quello di
fissare norme contrattuali matrimoniali (capitoli), con le quali
salvaguardare le doti di “paraggio” di donne morte senza figli,
facendole ritornare alla famiglia di origine.
4. I sedili si occuparono anche della vita
morale, della tutela dei costumi e tradizioni delle famiglie ivi
residenti. Controllavano il rispetto del culto religioso [In
difesa delle tradizioni religiose locali, si ricorda che i
rappresentanti della nobiltà di sedile si schierarono contro il
viceré D. Pietro de Toledo, il quale nel 1547 tentò di introdurre
a Napoli l’Ufficio della Santa Inquisizione. Il 16 maggio
scoppiarono i già menzionati tumulti contro gli spagnoli,
capeggiati da Cesare
Mormile (Portauova), Gio. Francesco
Caracciolo, Giovanni Sessa e Ferrante
Carafa, con l’astensione
dell’eletto del Popolo, Domenico Terracina. Furono inviati,
anche, degli ambasciatori (Placido
di Sangro, Ferrante
Sanseverino) ed il viceré Toledo reagì ordinando la sgozzatura
di tre giovani nobili (Fabrizio
d’Alessandro, Antonio Villamarino, Gian Luigi Sorrentino), che avevano fatto scappare
un prigioniero dai birri).
I seggi di Nido e Capuana, ad esempio, contribuivano alla
raccolta delle collette e donativi, tramite propri esattori,
partecipando all’amministrazione finanziaria fino all’epoca di
Carlo II.
|
©
Napoli – una delle tanti torri che circondavano la città |
5. Spettava al seggio anche il controllo e la
garanzia dell’ordine cittadino, nonché la pace nazionale tra le
varie fazioni dinastiche o politiche. Per adempiere a tale
funzione si avvaleva della menzionata “Giunta del buongoverno” o
“Otto del buono Stato”.
6.
I seggi si occuparono anche della difesa delle
torri e porte cittadine, vista la loro ubicazione nei pressi di
queste strutture. Tra l’altro, “creavano i capitani a guerra…e
convocavano la soldatesca”.
Napoli era circondata da mura solide e alte,
tanto è vero che lo storico Tito Livio scrisse che
"lo
stesso Annibale la prima volta che strinse d'assedio la
città, si spaventò all'aspetto di quello; ed alla pronta difesa
degli assediati, dovette ritirare le armi."
Nelle occasioni solenni, come l’arrivo di un
sovrano a Napoli, il Seggio del Popolo era rappresentato da
un nobile scelto dal popolo. |
Nel 1703 fu eletto
rappresentante del fedelissimo popolo
Don Francesco d'Anna,
duca di Castelgrandine, per accogliere re
Filippo V
di Spagna.
7. I sedili nobili, eleggevano a turno,
poi, la prima dignità cittadina, il sindaco di Napoli, cui
spettava il diritto di rappresentanza della città di Napoli e
del baronaggio del regno nei parlamenti generali. Costui
precedeva con gli eletti tutti i dignitari e partecipava alle
grandi pubbliche solennità e parate, seppur la carica rimase di
onorificenza.
Il sindaco, tra l’altro, si eleggeva in occasione dei raduni dei
pubblici parlamenti, ove intermediava le proposte del re con i
parei dei seggi, nonché controllava le “procure fatte da quelli,
che sono assenti”. L’elezione del sindaco poteva anche avvenire
in concomitanza della salita al trono di un nuovo Re, “e
quando si celebrano le esequie per gl’istessi, o quando prendono
moglie, e nascono loro figlioli maschi, e femmine primogenite,
nella venuta de’ nuovi Viceré”.
Il sindaco aveva un posto riservato accanto al re “o di colui,
che il Re rappresenta”.
8. I sei eletti, compreso il deputato del seggio
di Forcella già incorporato (settemviri), nonché l’eletto del
seggio di Popolo (dal 1495), oltre alla presidenza del Grassiere
o prefetto dell’Annona formavano il governo comunale,
rispondendo alle accennate funzioni amministrative, quali:
a) gestione fiscale dell’annona e grascia (cioè
del valore delle derrate e sue modalità di vendita);
b) nomina dei
giudici della Vicaria;
c) nomina dei Tavolari, periti agrari ed urbani;
d) nomina del Giustiziere e Portolano con
concessione regia di Filippo IV (1635).Circa la prima nomina,
trattavasi di carica importante per le mansioni espletate come
da sentenza del Collaterale del 3 marzo 1510, quali
l’amministrazione e rispetto della legge contro le frodi
alimentari, il controllo nei quartieri sia per le questioni
civili che criminali. La durata di tale carica era mensile e
veniva coperta a rotazione dagli eletti del Tribunale di S.
Lorenzo.
La carica di Portolano era quella di un magistrato con
compiti di sorveglianza sulle nuove costruzioni nella città,
nonché gestiva i permessi per edificare. Infine, gli eletti
davano esecuzione degli editti municipali e degli statuti
presenti nelle prammatiche.
9. I seggi nella loro giurisdizione provvedevano
ai fabbisogni particolari dei cittadini e dei quartieri. Presero
cura dello sviluppo ed incoraggiamento degli studi letterari e
poetici come nel caso della nascita dell’Accademia degli Oziosi,
erede dell’antica accademia aragonese.
10. Nei seggi venivano edificate delle piccole
“cappelle” (originate nelle Fratrie), dette “Staurite”(dal greco
stauros ), dedicate alla Santa Croce. Tali aree sacre
aumentarono nel tempo per uso delle processioni parrocchiali e
furono di proprietà dei patronati aristocratici. Difatti, per la
domenica delle Palme, dopo la benedizione, era tradizione nei
sedili organizzare una processione che dalle chiese parrocchiali
partiva ed attraversava tutto il quartiere con gli “stauritari”
attivi nel raccogliere le elemosine. La processione faceva sosta
presso un altare con sua croce ornata di palme. In tali luoghi,
nel corso del tempo, si edificarono le cappelle. L’attività
delle Staurite consisteva nell’adorazione, fare opere di pietà,
assistenza ai fanciulli abbandonati o vedove, agli infermi e
carcerati. Erano dedicate ad un Santo Protettore e si
specializzarono nella sepoltura dei morti, creando nei
sotterranei sottostanti dei cimiteri, detti “terre sante”.
I fratelli di quel rione o quartiere ricevevano degna sepoltura
con l’uso dell’interro, esumazione e sistemazione definitiva
nell’apogeo. Queste Staurite si trasformarono, poi, nelle
confraternite o arciconfraternite, dedite al culto, beneficenza
e sepoltura.
I nobili costituirono cinque arciconfraternite
aristocratiche, quante erano i seggi:
a. Nobile Compagnia ed Arciangustissima Reale
Arciconfraternita dell’Immacolata concezione purità di Maria dei
nobili in Montecalvario
b. Nobile Compagnia e Reale Arciconfraternita,
Chiesa ed Ospedale di Santa Maria della Misericordia fuori porta S.Gennaro (“Misericordiella”)
c. l’Augustissima Compagnia della Disciplina
della Santa Croce
d. Real Arciconfraternita di Nostra Signora dei
Sette dolori in San Ferdinando di Palazzo
e. Real Compagnia ed Arciconfraternita dei
Bianchi dello Spirito Santo
Le assemblee delle Staurite erano frequentate
sia da patrizi cittadini che dai feudatari.
Circa il culto dei Santi, i rappresentanti dei
seggi avevano diritti decisori, come avvenne per la votazione
del 26 maggio 1628 presso il Tribunale di S. Lorenzo,
relativamente ai Santi protettori del regno, compreso S.
Gennaro.
11. I seggi, infine, avevano il diritto di
nominare i “maestri razionali”, cioè magistrati fiscali, fino
all’epoca di re Ladislao. Questi formavano una “curia” preposta
al controllo dei conti fiscali, oltre alla direzione e
sorveglianza della coniazione delle monete, nonché le locazioni,
appalti sui dazi e gabelle.
E’ annotato, tra l’altro, dal Summonte
che molti “Gentiluomini di tutti i seggi Napoletani”, nonché
altri insigniti “del cingolo militare, ordine allora il più
riputato di Cavalleria”, appartennero alla classe dei notai.
|
Ogni piazza si distingueva, anche, per l’utilizzo
di specifiche “arme blasonate”, che spesso furono collegate alla
storia del quartiere e sue caratteristiche urbane. Scrive il
Torelli
che tali armi “si sono aggiunte secondo le convenevolezze di
essi, i Sostegni, e i Mantenitori, che i latini chiamano
Telamones, e Atlantes, intendendo per sostegni, secondo le
regole de gli Armeresti, le Fere, e gl’altri animali strani, e
per mantenitori, tutto ciò che ha sembianza humana, come sono i
Puttini, e le Ninfe”. |
© Napoli -
stemma del Sedile di Capuana |
Era opinione comune che prese il nome dalla porta da cui si
dipartiva la strada che portava a Capua; studi recenti hanno
accertato che detta strada non conduceva a Capua e, pertanto,
questo nome è dovuto alla presenza della potente
famiglia Capuano.
La sede di questo seggio principale rimase nei pressi della
Porta omonima dal 1488, anno della costruzione della nuova porta
per volontà di
Ferrante I
d’Aragona.
Con questo progetto, detto sovrano intese
celebrare la sua incoronazione al trono di Napoli e la sconfitta
dei baroni ribelli. Su questa porta, poi, e sulle altre della
città, gli eletti decisero, in occasione della temuta pestilenza
(30 ottobre 1656), di far dipingere dall’artista Mattia Preti
un’edicola votiva alla SS. Vergine protettrice, ai Santi
Gennaro, Arcangelo e Rocco. |
© Napoli - Porta Capuana |
Tale sedile risulta essere fondato nel 1251 ed
ingrandito nel 1453 con l’acquisto delle case di Matteo
Filomarino e Petrillo
Cossa. I suoi capitoli furono redatti il
22 settembre 1500. Nei Capitoli si fissarono le norme sulle
aggregazioni al seggio:
1 - necessava essere nobili con i quattro quarti
“di nome e d’arme”con avi paterni e materni nobili
2 - essere nato legittimamente da nobili o da
persone imparentate
3 - non essere condannato “d’alcun vizio che
offender potesse la Nobiltà”, tanto da rischiare anche
l’espulsione, a riconoscimento avvenuto.
Questo modello di regolamento fu ripreso da altri
sedili.
Prese come Santo protettore il Santo Martino,
barone e vescovo di Tours, che dette poi il nome al seggio
minore, soppresso con la riforma angioina. Presentava, inoltre:
1- Arma del seggio: era formata da un cavallo
frenato d’oro in campo azzurro/rosso.
Secondo Giovanni Villani
detta immagine si ispirava ad un’antica statua in bronzo di un
cavallo famoso, già insegna della città di Napoli, che fu
distrutta dai “miniscalchi” di Napoli per costruirci le campane
della “maiore Ecclesia” nel 1332.
Secondo il Mazzella,
inoltre, tale statua sarebbe stata modificata ai tempi della
conquista di Napoli da parte dell’imperatore
Corrado (1253). La statua del cavallo, che stava dinanzi
alla chiesa Maggiore a “dimostrare la libertà della città”,
venne così trasformata per volere del suddetto re che vi fece
scolpire le redini, simbolo di remissione.
Re Carlo I volle per
quest’arma far scrivere i seguenti versi: “HACTENUS EFFRENUS
DOMINI, NUNC PARET HABENIS, REX DOMAT HUNC AEQUUS, PARTHENOPENSIS
EQUUM”,
ad indicare che un re giusto è capace di domare un cavallo
sfrenato. Infine, il menzionato Torelli completa la descrizione
dell’arma, aggiungendo “lo scudo timbrato di corona colla
divisa, e i pennoncelli, come di sopra, i sostegni sono due
cavalli frenati d’oro divisi d’argento”.
2 - I seggi minori erano:
Seggio dei Melari o Melazzi,
dal nome della famiglia nobile fondatrice;
Seggio di S. Stefano,
così chiamato per la vicina chiesa omonima;
Seggio dei Santi Apostoli,
per la chiesa omonima che era ubicata alle spalle del
palazzo
di Somma;
Seggio di
S. Martino,
dal nome della vicina chiesa che aveva per
arme il Santo a cavallo che strappa il proprio mantello con
un povero mendicante, sul retro vi era l’ospedale
della Pace. Tale seggio minore era, già, menzionato
nell’atto del 1196 tra il sig.
Capece Scondito e la badessa Rumbe del monastero di
S.Maria d’Agone;
|
|
|
Stemma Sedile S. Martino. A
destra: stemma Sedile dei Manocci |
Seggio
dei Manocchi o Manocci,
da un’antica famiglia ivi residente con arma d’argento alla
fascia rossa con palma uscente.
Il seggio di Capuana risulterebbe, però
inizialmente gestito da tre nuclei familiari,
quali gli Aienti, i Caracciolo ed i Capece, che delimitavano tre
quartieri.
L’elenco delle famiglie ascritte, secondo il Mazzella,
alla data della pubblicazione della sua opera (1601) era così
composto:
Acciapaccio, Arcella,
Aprano, Barrile, Bocca Pianoli,
Buoncompagno, Bozzuta,
Cantelmi,
Capece,
Caraccioli Svizzeri,
Caraccioli Rossi, Carbone,
Crispani,
Coscia,
Colonna,
Dentici, di Forma,
Galeota,
Filomarino, Latri,
Leonessa, Guindazzo, Lagni,
Minutolo,
Mariconda, Mendozza, Manselli,
Marra,
Morra,
Orsina,
Loffreda,
Pandoni,
Piscicella,
Protonobilissimo, Seripanno,
Scondito, Silva,
di Somma,
Tocco,
Tomacello,
Saracino,
Zurlo.
A quella data i
casati estinti erano: Acciaiolo, Aiello, Agala, Aquillio,
Arbusto, dell’Aversana, Cataneo, Cassiano, Cappasanta, Comino,
Franco, Gagliardo, De Insula, Mansella, Pesce, Procolo,
Quaracello, Frangipane, Siginulfo, Tarcello, Varavallo,
Virginio, Zamarella.
Il Torelli,
invece, nella citata opera “Lo splendore della Nobiltà
napoletana”, edita nel 1678 mise in luce l’esistenza di una
ripartizione di casati per quartiere, elencando le principali
famiglie, ivi residenti.
Nel
quartiere degli Alienti
avevano a quel tempo
dimora:
Buoncompagno, Cantelmo, Crispano, Dentice,
Filomarini, Guindazzi, Lagni, Leonessa, Loffredo, Maricondo,
Marra, Morra, Orsino, Silva, Somma, Tocco.
Nel
quartiere dei Capece
vi erano: Capece, Galeota, Latro, Minutolo, Piscicelli,
Sconditi, Tomacello, Zurlo.
Il
quartiere dei Caracciolo
ospitava: Caracciolo Rossi, Caracciolo Pisquizi o Sguizzeri
A distanza di quasi un secolo, il Capecelatro,
nell’opera del 1769,
elenca le seguenti famiglie, senza alcuna distinzione:
Caraccioli Pisquizi, Caraccioli Rossi, Capeci, Capeci Aprani,
Capeci Bozzuti, Capeci Galeoti, Capeci Minutoli, Capeci
Piscicelli, Capeci Sconditi, Capeci Tomacelli, Capeci Zurli,
Capeci Latri. Secondo detto autore, le famiglie aggiunte erano:
Boccapianola, Brancia, Buoncompagni, Cantelmi, Colonna dei duchi
di Zagarola, Crispani, Barrilli, Dentice del Pesce, Filomarini,
di Forma, Guindazzi, di Lagni, della Leonessa, Loffredi,
Mariconda, Marra, Mendozza del Principe di Melito, Morra, Orsini
del duca di Bracciano, Seripandi, di Silva, di Somma, Tocco
delle Onde,
Franchi. Invece, le
famiglie “spente”, a quella data: Acciajoli, Acciapacci, Ajossa,
Aquilio Arbusto, Arcella, Aversana, Barrese, Carbone, Catanei,
Cappasanti, Guigliart, dell’Isola, Mansella, Mastaro, Pandoni,
Pesce, Proculo, Siginolfo, Tortello, Varavalli, Buccasinghi,
Persico.
Nel 1800 le
famiglie
ascritte del Libro d’Oro
erano: Buoncompagno di Sora e Fiano, Capece Galeota, Capecelatro
di Lucito-di Morrone-di Nevano-di Siano, Capece Minutolo di
Canosa-di Ruoti-di S.Valentino, Capece Piscicelli, Capece
Scondito, Capece Zurlo, Caracciolo di Avellino - di Brienza - di
Forino - di Pannarano - di Roccaromana- di Torchiarolo - di
Torella - di Vietri - di S.Vito- di Arena - di S. Buono - di
Castagneta - di Castelluccia -di S. Eramo - del Gesso - di
Grottaglie e Cursi - di Marano - di Martina - di Melissano - di
Pettoranello - di Rodi - di Villamaina - di Venosa,
Cattaneo di Sannicandro, Dentice,
Evoli,
Filangeri, Filomarino della Rocca - di Torre, Guindazzi,
Leonessa, Lignì, Loffredo di Cardito - di Migliano, Mariconda,
de Medici, Morra, Pescara,
Revertera,
Ruffo
di Baranello - di Calabria - di Scilla, Tocco. |
© Napoli - Quartiere Forcella -
stemma del Sedile di Forcella - sec. XVI - |
Il nome del sedile deriva, probabilmente, dalla
presenza nel quartiere, ove era ubicato, delle forche di
giustizia. Difatti, tali strumenti di punizione erano
distribuiti nei pressi della piazza di Forcella, luogo, tra
l’altro, noto con il nome “e cape a Vicaria”, in quanto si
esponevano le teste recise dei giustiziati. Inoltre, nei pressi
della piazza Mura Greche, per la presenza di ruderi di mura
elleniche, sorgeva il “cippo a Forcella”, cioè il tronco ligneo
delle esecuzioni e supplizi. Altra tesi storica fa, invece,
derivare il nome dalla presenza della scuola di Pitagora, che
usava come emblema la lettera biforcata (Y). |
©
Napoli - Stemma Seggio di Forcella |
© Napoli, Chiesa di Sant'Agrippino
rifatta dai nobili del sedile di Forcella ai tempi di
Carlo I d'Angiò |
Porta d'ingresso della Chiesa di
Sant'Agrippino con le insegne del Sedile e di
Ferrante d'Aragona |
Questo quartiere era, spesso, menzionato dagli
storici come “regione erculense” per la presenza del tempio di
Ercole, nonché “regione termense” per le antiche terme.
Tale sedile presentava:
1 - Arma del seggio: era rappresentata da una
pergola/forca a ipsilon (Y), in campo oro e rosso. Il motto,
Ad bene agendum nati sumus , era “Siamo nati per fare il
bene”. |
2 - I seggi minori erano:
Seggio dei Cimbri,
collocato lungo la strada ove risiedeva l’omonima famiglia.
Aveva per arme tre frutti di noce, di cui due in capo ed uno
in punta in campo d’argento, attraversato da fascia di
verde. Nei pressi vi era la chiesa delle Crocelle;
Seggio dei Pistesi/Pistaso,
era situato nei pressi della chiesa di S. Nicola.
Il sedile fu soppresso definitivamente nel 1684 ed inglobato
in quello di Montagna.
|
Stemma seggio dei Cimbri |
© Napoli -
stemma del Sedile di Montagna |
Era ricordato anche come seggio di “Somma
Piazza”, per la sua collocazione nella parte più alta della
città, o dei “Francini” perché la sede iniziale era presso la
casa della nobile famiglia Francini. Vi è memoria della presenza
in questo quartiere di un teatro, del foro, del palazzo palatino
(sede dei pubblici affari) in epoca ellenico-romana.
Nel 1419 la sede, poi, fu trasferita di fronte al palazzo Cursi,
in via dei Tribunali, tra la via S. Paolo e la chiesa di S.
Arcangelo a Segno, confinando con il palazzo della
famiglia Cicinello. Il sedile si
estendeva su tutto il quartiere, ubicato nella parte alta della
città.
Presentava:
1- Arma del seggio: era formata da tre monti di
verde in campo d’argento (5 monti in oro in campo azzurro). Una
corona a trifogli d’oro con due saraceni a sostegno era riposta
a ricordo della vittoria dei napoletani nel 1504.
2 - I seggi minori erano otto, corrispondenti ai vecchi tocchi:
Seggio di San
Paolo e Talamo,
nei pressi della chiesa di S. Paolo;
Seggio Capo Piazza o Somma Piazza,
così chiamato per essere collocato nella piazza più alta della
città. Era detto anche dei “Rocchi” per la presenza della
famiglia Rocco. Vi si trovava nei pressi
il Pozzo Bianco;
Seggio di Mamoli o di Mercato,
dal nome della famiglia Mamoli, ubicato nei pressi del vecchio
mercato, vicino la chiesa di S.Lorenzo. Vi era un portico nel
vicolo de’ Maiorani. Presentava arma una testa di leone con un
ramoscello d’ulivo tra le fauci;
Seggio dei Ferrari,
ove risiedeva la famiglia Ferrara fondatrice della chiesa di San
Pietro dei Ferrari. Aveva come arma due leoni rampanti che
mirano ad una cometa con tre stelle ad otto punte. Al tempo di
re Ruggiero veniva chiamato Tocco de Galien
.
Seggio dei Saliti,
così chiamato per la presenza della famiglia Saliti, residenti
nei pressi della cappella di S. Francesco dei Saliti. Aveva come
arma un leone che scala tre monti; |
Da sinistra a destra:
Seggio dei Manoli o Mammoli,
Seggio dè Ferrari e
Seggio dei Saliti |
Seggio dei Cannuti. A destra:
Seggio dei Calanti |
Seggio
dei Cannuti,
legato alla famiglia Cannuti. Aveva come arma un leone
rampante in lotta con un serpente attorcigliato ad albero. Era
collocato presso la chiesa degli Incurabili;
Seggio
dei Calanti,
collegato alla famiglia Calanti, presso la chiesa di S.
Giovanni in porta. Aveva come arma tre monti sormontati da
tre uccellini, di cui uno in volo;
Seggio di
Porta S. Gennaro,
collocato nei pressi della porta omonima, oggi sede della
chiesa di Nostro Signore Gesù delle Monache. Era detto anche
seggio di
Carmignano
per la sede nel palazzo di detta famiglia. |
Le “Costituzioni” o Capitoli del seggio risalgono
al 1420, mediante “Istrumento pubblico” che vide la
partecipazione di sei nobili patrizi napoletani, provenienti dai
seggi di Forcella, Montagna e seggi minori. Il 26 dicembre 1500
seguì altra Costituzione.
Il citato Mazzella
elenca le seguenti famiglie iscritte:
Cicinello,
Carmignano,
Bonifatio,
Coppola,
Costanzo,
De Maio,
Di Rivera, Maiorano,
Miraballo,
Muscettola, Origlia,
Pignone,
Poderico, Quarracino,
Rocco,
Rosso del Barbazzale,
Sanfelice,
Sances, Soriente, Stendardo,
Toledo, Villano.
Le estine erano: Aleo,
Albissa, Alneto, Arcamone, Arichiuto, Anco, Aneccio, Balestriero,
Baiano, Buteo, Barbaro, Boccatorto, Brisaca, Bruto, Cicina,
Cocchiola, Caputo Caruiserta, Cotogno, Cupidino, Colombo,
Griffo, Cecalese, Cimbro, Caperuso, Calanda, Conza, Cannuto, de
Toro, Faiella, Francone, Falce,
Ferrara,
Giontola, Guibeligna, Ganga, Genutio, Hercules, Iapanto, Iagante,
Impero, Iulo, Ianara, Lanzalonga, Mammolo, Monda,
Moccia, Mugillano, Mumia, Mardones,
Muschetta, Mazza, Orimine, Origlia, Pappa Insogna, Pozella,
Pizzofalcone, Pizzo, Paladino, Pigna, Pizzuno, Retrosa, Raimo,
Ronchello, Roccha, Rosso del Leone, Sicola, Sarciatis, Soto,
Spicciola Cascio, Scanna Cardillo, Scrignara, Simia, Sarno,
Sicula, Sforza, Trofeo, Toso, Tora, Verticillo.
Secondo il Torelli, nella menzionata opera,
l’elenco era invece così composto: Cicinello, Carmignano,
Coppola, Francone, Majo, Miroballo, Muscettola, Pignone,
Poderico, Ribera, Rosso del Barbazzale, Sanfelice, Sances,
Sorgente, Toledo.
Nell’opera del Capecelatro del 1769
l’elenco risulta così formato:
Carmignani, Cicinelli, Coppola, Majo, Miraballi,
Franconi, Muscettola, Pignoni, Pulderichi, Rochi, Rossi,
Sanfelice, Sances, Sorgenti, Toledo, Villani. Secondo lo stesso,
le famiglie estinte erano:
Majorini, Arcamoni, Bajano, Balestrieri, Barbati,
Boccatorti, Bonifacii, Calandi, Cannuto, Costanzi, Cicalesi,
Caperuso, Chianula, Cicini, Cimbro, Cochiola, Cotogno, Ferraro,
Fagilla, Giontola,
Grassi, Ribera,
Rossi del Leone, Scorciato, Boffa detti Stendardi, Scrignari.
Alla data del 1800,
nel Libro
d’Oro
le famiglie ancora presenti erano: Althan, Carmignani, Coppola,
Daun, Francone, De Majo Durazzo, Muscettola, Pacecco, Pignone,
Ravaschiero, Sanchez de Luna
d’Aragona, Sanfelice di Acquavella-di Bagnoli, Laureana,
Transo.
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© Napoli -
stemma del Sedile di Nido o Nilo |
Era chiamato dagli antichi quartiere di
“Vestoriana” e “Calpurniana” o “Alessandrino” per la presenza
dei mercanti di Alessandria, che avevano la loro chiesa dedicata
a S.Atanagio, patriarca di Alessandria.
Successivamente in epoca rinascimentale, tale sedile fu così
chiamato per il rinvenimento in loco della statua di marmo
rappresentante il fiume egiziano. Detta statua del Nilo,
giacente sdraiato con una cornucopia (simbolo di abbondanza), fu
eretta dai coloni egiziani/Alessandrini ivi residenti e
rinvenuta intorno al 1476 in occasione di alcuni scavi
nell’attigua piazzetta (regione Nilense).
Essendo decapitata, la
statua fu restaurata dal principe Paolo
Dentice,
Ferdinando
Sanfelice, Marcello
Caracciolo, principe Pietro
di Cardona, principe di Cassano e duca di Carinola, Augusto
Vicenzio e Antonio Grazioso,
con una nuova testa barbuta e nel 1734 fu riposta una lapide
alla base per ricordarne la storia.
Il testo dell’iscrizione così riferiva: VETUSTISSIMA NILI
STATUAM VIDES, AT CAPITE NUPER DUCTAM NON SUO, HOC SCILICET NILI
FATUM EST, SUUM QUOD OCCULTAT CAPUT ALIENO SPECTARI, NE TAMEN
OBSERVANDUM ANTIQUITATIS MONUMENTUM QUOD PROXIMAE NOBILIUM SEDI
NOMEN FECIT, STATUAE TRUNCUS IACERET IGNOBILIS, ELEGANTIORI
EXORNATUM CULTU, ERBANI AEDILES VOLUERUNT.ANNO D. MDCLVII.
Secondo altre fonti
detto nome si alternò spesso con quello di Nido, derivante dalla
folta presenza in questo quartiere di nidi di uccelli o di
studenti-scolari dediti allo studio dei volatili.
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©
Napoli - Statua del Nilo |
Il seggio di Nilo risulta tra i seggi più antichi
della città, già citato in alcuni documenti amministrativi del
1200, tanto da essere detto “Tocco Maggiore”.
La Basilica di San Domenico Maggiore in Napoli, già San Michele
Arcangelo a Morfisa, eretta dai domenicani (1283-1324), fu
arricchita dalle committenze dei nobili del Seggio, cui era
delegata l’amministrazione della zona, da ammirare, tra l'altro, la
cappella della Natività.
La sede era presso
la casa degli
Afflitto e collegio dei
padri della Compagnia di Gesù, seppur la primordiale sede fu
presso la chiesa di S. Angelo a Nido (tra i vicoli di
Donnaromita e del Salvatore). Successivamente, nel 1476, i
cavalieri comprarono un locale sito al Largo del palazzo dei
de Sangro e lo restaurarono tra il 1507
ed il 1517.
Altra sede fu il palazzo appartenuto ad Antonio
Beccadelli e poi a Giacomo
Capece Galeota
duca della Regina, accanto alla statua del Nilo.
Un regolamento del seggio di Nido risale alla
data del 8 giugno 1500 presentava:
1 - Arma del Seggio: era rappresentata da un
cavallo rampante nero in campo oro con corona trifoglia d’oro e
due figure di sostegno (di cui un “mantenitore” con corona
d’alghe, lunga barba ed anfora, mentre versa acqua
su un coccodrillo ed un cavallo d’oro, altro sostegno).
2 - I seggi minori erano:
Seggio di Arco
nei pressi della torre dei vulcani, forse per la residenza del
magistrato ellenico Arconte. Aveva per arma un arco finemente
lavorato poggiante su due antiche colonne, simboleggiando la
raffigurazione del portale dell’antico palazzo di città. |
Seggio di Gennariello,
ad Diaconiam, nei pressi della chiesa di San Biagio
dei Librai, ove convenivano i diaconi della città per
elargire elemosine ad orfani e vedove.
Seggio di
Casa Nuova,
nei pressi del palazzo della famiglia Marigliano, duchi del
Monte, ed al monastero di Montevergine.
Seggio di Fontanula
per la presenza di una piccola fontana nel vicolo di
Mezzocannone o forse anche per la presenza della nobile
famiglia Fontanola. Aveva per arma una fontana a due
bacini. |
Stemma Sedile di Arco. A destra:
Stemma Sedile di Fontanula o
Fontanola |
Altri Capitolo furono redatti nel 1507 e 1524.
Circa l’elenco delle famiglia ascritte nell’opera
del Mazzella (1601),
queste erano:
Acquaviva,
Afflitto, Aldemoresco,
d’Avalos,
d’Alagno,
Azzia,
Bologna,
Brancaccio Cardinale/Glivolo/
Imbriachi/Vescovo,
Caetano,
Cavaniglia,
Cantelmi,
Capani,
Capece,
di Capua,
Capuana, Caraccioli Bianchi / Del
Carmine,
Carrafa Della Spina /
Della Stadera,
Coscia, Diaz Garlone, del Duce,
Filingiero,
Frezza, Galerana,
Galluccio,
della Gatta, Guinazzio, Gonzaga,
Grisone,
Ghevara,
Girone,
Gesualdo, dello Iodice, di Luna,
Marramaldo,
Milano, Monsolino,
Montalto,
Orsino
di Gravina, Pandone di Venafro,
Piccolomini,
Pignatello,
Riccio,
de
Sangro,
Sanseverina, Saracino,
Sersale, Spina, Spinello Aquila, della
Tolfa,
Tomacello,
Toraldo,
Vulcano.
Quelle estinte erano: Arcella, Assanto, Acerra, Baldassino,
Celano, Feltrino, Imbriaco, Malatesta, Ossiero, Palentana di
Ravenna, Papirio, Pilvillo, Sanframondo, Sulpicio, Agaldo di
Corbano, Avezzano di Tricarico, Beccaria di Pavia, Clignetta di
Caiazzo, Cardona di Rigio e Colisano, Centriglia di Cotrone,
Fontanola, Farramosca di Ottaiano, Monforte di Campobasso, Rumbo,
Villamarina di Capaccio.
Nella postuma opera del Torelli (1678)
le famiglie erano:
Acquaviva, Afflitto, Avalos, Bologna, Brancaccio,
Barberino, Cavaniglia, Capuano, Capece, Capua, Cordines, Carafa,
Coscia, Dentice, Duce, Frezza, Filangeri, Gaetani, Galluccio,
Gesualdo, Gonzaga, Girone,
Giudice, Guevara, Guindazzo, Grisone,
Luna, Montalto, Milano, Oria, Panfili, Rossi, Piccolomini,
Pignatelli, Riccio, Sangro, Saracino, Sanseverino, Sersale,
Spinello.
Al 1769 il Capecelatro,
invece, annovera il seguente elenco delle famiglie ascritte:
Acquaviva, Afflitti, Avalos, Azzìa, Berlingieri,
Bologna, Brancacci, Cabanigli, Cantelmi, Capani, Capeci, di
Capua, Cardine, Caraccioli Carrafa della Stadera, Caraccioli
Carrafa della Spina, Coscia, Dentici delle Stelle, Doce, Frezza,
Gaetani, Gallucci, Gatta, Gesualdi, Gironi del Duca di Ossuta,
Gonzaghi, Grifoni, Guevari, Guindazzi, Luna, Milani, Monforj,
Montalbi, Orsini del duca di Gravina, Piccolomini, Pignatelli,
Ricci, Sangro, Sanseverini, Saracini, Sersali, Spina,
Spinelli, Tolfa, Volcani.
Mentre le famiglie estinte erano:
Alagno, Acerra, Beccaria, Capuani, Cardone Centeglia,
Diascarlona, Fontanola, Gallarati, Malaspina, Maramaldi, Ossieri,
Papirio, Polenta, Rumbo, Sanframondo, Solpizio, Toraldi,
Villamarina, Tomacelli.
Nel Libro
d’Oro
del 1800, le famiglie ascritte risultavano: Acquaviva, Afflitto,
Avalos di Celenza - del Vasto, Bologna,
Bonito di Casapesenna, Brancaccio, Capano di Miano - di
Pollica, Capece di Barbarano - di Corsano, Carafa d’Andria-di
Belvedere-di Colombrano-di S.Lorenzo-di Maddaloni-di
Montecalvo-di Noia-di Policastro-di Rocella-di Tortorella - di
Traetto, Dentice di Accadia - di Arecco, Gaetani di Laurenzana -
di Sermoneta, Gallarati Scotti, Galluccio, Guevara, De Luna
d’Aragona,
Mastrogiudice,
Milano, Montalto, Orsini, Pignatelli di Belmonte - di Casalnuovo
- di Cerchiara - di S.Demetrio - di Fuentes - di Marsianuovo -
di Montecalvo - di Monteleone - di Monteroduni - di Strongoli,
Salluzzo, Sangro di Casacalenda - di Fondi - di S.Severo - di
S.Stefano, Sanseverino di Bisignano - di Pacecco - di Saponara,
Saracino, Sersale,
Spinelli di
Fuscaldo - di S.Giorgio - di Laurino - di Scalea - di Seminara -
di Tarsia, Vulcano.
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© Napoli -
stemma del Sedile di Porto |
Tale sedile prendeva il nome dall’antico porto
della città, collocandosi tra la chiesa di S. Pietro a
Fusariello e la chiesa di S. Giovanni Maggiore o meglio tra via
del Sedil di Porto e Mezzocannone.
Presentava:
1 - Arma del Seggio: un villoso uomo marino,
armato nella mano destra di pugnale con punta rivolta in basso,
su sfondo nero. Taluni studiosi sostengono che tale figura era
da identificarsi nell’Orione, il mitologico cacciatore amato da
Eos ed ucciso da Artemide, che si venerava presso un tempietto
greco-romano presente in quell’area urbana. Questa “Deità a’
Naviganti infesta”, secondo il Torelli presentava queste
allegorie “i peli le piogge cadenti la spada, la crudeltà, e il
furore dell’onde”.
Altra tradizione, invece, si rifà al leggendario Niccolò Pesce.
Costui era un uomo di mare che viveva sempre immerso nelle acque
marine, senza dover risalire in superficie per respirare.
La leggenda, poi, lo descrive facile esca degli enormi pesci,
dal cui ventre usciva con l’ausilio del suo lungo coltello.
L’arma in bassorilievo è sostenuta, poi, da due tritoni ed è
ancora visibile in via Mezzocannone-angolo via del sedile di
Porto. |
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© Napoli
- Stemma Seggio di Porto. A destra: stemma Seggio di Porto |
Questo stemma sembra essere stato rinvenuto
allorquando fu creata la prima sede del seggio sotto
Carlo I d’Angiò
e riposta in quel punto della città dal 1889, epoca del
disastroso “risanamento” che portò all’abbattimento dell’antico
edificio ospitante il seggio.
La lapide che accompagna il
bassorilievo reca la seguente iscrizione:
“CURIA NOBILIUM DE PORTU.HEIC UBI OLIM NAVIUM
STATIO FUERAT FUNDATA.INVENTOQUE IN EFFOSIONIBUS ORIONIS SIGNO
DISTINCTA. NUNC SEDE IN ELEGANTIOREM URBIS REGIONEM TRANSLATA.
NE CONVERSO IN PRIVATOS USUS LOCO. LONGAEVA VETUSTATE FACTI FAMA
ABOLERETUR.
AETERNUM APUD SEROS NEPOTES TESTEM. HUNC LAPIDEM
ESSE. VOLUIT ANNO AERAE CHRIST.
MDCCXLII.
(La Curia dei Nobili del sedil di Porto, volle qui, dove un
tempo era stata fondata una rada per le navi, un bassorilievo di
Orione trovato durante gli scavi e ora trasferito in una regione
più elegante della città.1742).
Si allude nell’iscrizione anche al trasferimento dell’antica
sede del seggio nel 1742 in altro locale, sito in via S.
Giuseppe a Piazza Medina, fatto costruire da re
Ferdinando IV di
Borbone. |
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Sempre il Torelli allude nella descrizione alla
presenza di un cimiero con “una Nave avvampata”.
2 - I seggi minori erano:
Seggio Acquario,
per l’abbondanza delle acque che affluivano anche a delle
vasche, “fusari”, utilizzate per la bagnatura dei lini (su tale
luogo sorse poi la chiesa di San Pietro a Fusariello,
allorquando re Carlo I d’Angiò decise di trasferirli verso il
ponte della Maddalena, causa il cattivo odore). Aveva per arma
due figure femminili che reggono un corno dell’Abbondanza, da
cui sgorga l’acqua. A ricordo di tale seggio minore, rimase una
cappella sulla salita del Grande Archivio, distrutta in epoca
recente.
Seggio Griffi,
così chiamato per la presenza della famiglia dei Griffi/Grifone
nella strada rua Catalana. Aveva come arma un grifone rampante.
La sede era nei pressi del mare, ove ancora oggi si trovano dei
resti di colonne e capitelli in un palazzo tra via De Pretis e
la calata di S. Marco al n. 4. Tale seggio seguì le sorti della
famiglia Grifone, la cui dimora fu fatta abbattere nel 1331 da
re Roberto d’Angiò per il delitto di cui si era macchiato il
giudice Siconio Griffi
reo della
morte di Lorenzo Costagnola. Anni dopo, ottenuto il
perdono, il Casato ricostruì le case e il seggio, tornando ad
occupare un posto di prestigio.
Il sedile fu soppresso definitivamente nel 1460.
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Stemma Seggio di Aquario. A destra: temma Seggio dei Griffi |
L’elenco del patriziato ascritto del Mazzella
è così composto: Aiossi,
d’Alessandro,
d’Angelo, di Cardona,
Colonna,
di Dura,
di
Gaeta,
di Gennaro, Griffo,
Macedonio,
Macedoni di Maione, Mele, Origlia, Pagano,
Pappacoda,
Serra,
Severino,
Strambone,
Tuttavilla,
Venato.
Le estinte
erano: Aghilar de Cordova, Alopa, Atratino, Ambusto, Albino,
Arcamone, Aventino, Castagna, Camerino, Cacciaconte, Capella,
Crasso, Cicurino, Campegio, Crapanico, d’Evolo, Druso, di
Nissiaco, de Mileto, de Folietto, Ferrillo, Fodio, Furio, Fuso,
Fregolo, Gentile, Helva, Ianuilla, Iacobatio, Iancoletto, de
Laurentiis, Landriano, Latio, Loporta Cardinale, Mandagoto, de
Manatis, Malabranca, Novelletto, Oringa, de Ossa, Paparone,
Podietto, Scorna, Viola.
Le famiglie ascritte e citate dal Torelli
erano: d’Alessandro, Ariamone, Angelo,
Aquino, Cardona, Colonna, Dura, Gaeta, Macedonio, Origlia,
Pagano, Pappacoda, Savelli, Serra, Severino, Strambone, Venato.
Il Capecelatro,
invece, presenta nella citata opera il seguente elenco:
Alessandri, Arcamoni, Cardona, Colonna, Dura, Gaeta, Gennaro,
Serra, Macedonii, Macedonii di Magone, Mele, Origlia, Pagani,
Pappacoda, Severini, Stramboni, Tuttavilla, Venati. Le famiglie
“spente”, a quella data, erano: Aiossa, Alopa, Castagnola,
Ferrillo, Fregosi, Janari, Gentile, Landriani.
Nel 1800 erano
ancora ascritte
nel Libro
d’Oro
le seguenti famiglie: Aquino,
Borghese,
Colonna di Stigliano - di Tursi, de Dura,
Firrau, Gaeta di
S.Nicola - di Montepagano, Di Gennaro,
Harrac, Macedonio di Grottolelle - di Ruggiano,
Marino, Navarretta,
Riario,
Ruffo di Castelcicala,
Serra di Pado,
Sersale di G. Luigi,
Severino di Gagliati - di Pisignano - di Sedì, Tuttavilla. |
© Napoli -
stemma del Sedile di Portanova |
Molto probabilmente tale seggio era inglobato in quello di
Porto, quale seggio minore, per poi staccarsi in epoca remota.
Fu chiamato seggio di Porta Nova per la presenza della nuova
porta verso il mare, edificata a seguito dell’allargamento della
cerchia muraria, accanto alla chiesa di Santa Maria di
Portanuova. Nei primi anni del ‘400 fu istituito dal governo
angioino l’Ordine
o Compagnia della Leonza
che raggruppava in maggioranza patrizi del seggio di Portanova.
La sede del seggio fu rifatta in diverse epoche, tra il 1587 ed
il 1673, nonché ampliata tra il 1706 ed il 1708. Nel 1723 fu
totalmente ricostruita su disegno di Giuseppe Lucchesi con
affreschi e decori ad opera di Nicola Malinconico.
Presentava:
1 - Arma del seggio: una porta d’oro in campo
azzurro (prima era rosso) con due cani d’oro come sostegni, “per
la fedeltà a’ cani la custodia delle porte commettevasi” .
2 - I seggi minori distribuiti nei quartieri o
“tocchi”inclusi erano:
Seggio degli Acciapacci,
derivante dalla nobile
famiglia
omonima, già residente dal X secolo a Napoli ed in Sorrento,
presso il seggio di Porta. L’arma di questo seggio era simile a
quello della suddetta famiglia: un leone rampante in oro,
attraversata da una banda di azzurro che è caricata da tre
conchiglie d’oro (poi tre asce o accette), il tutto in campo
d’argento.
Vi è una bolla del 1117, presso l’archivio della Trinità di
Cava, in cui l’arcivescovo di Napoli, Sergio III, citò tale
seggio per la concessione fatta all’Abate del monastero della
Trinità di Cava circa l’esenzione della sua autorità su alcune
chiese di detto monastero.
Seggio dei
Costanzi,
dalla nobile famiglia
Costanzi presente a Napoli dal XII secolo. Collocato presso
la chiesa di S. Maria, aveva come arma un leone sopra sei
costole, tre per lato. La sede fu abbattuta per ordine di
D. Pedro di Toledo, a seguito
dell’ampliamento della strada vicereale. |
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Stemma Sedile Acciapacci. A destra:
Stemma Sedile dei Costanzo |
Il
Mattei,
consultando i Registri Angioini, riferisce che sotto re
Carlo II d’Angiò scoppiò una lotta tra famiglie nobili
iscritte al seggio di Portanuova, tubando la quiete pubblica.
Detto sovrano, allora, “relegò a domicilio coatto” le
famiglie dei Caputo in Eboli, i Griffi all’Aquila, i
Moccia, i Fellapassi e Serinani ad
Isernia, fino a quando non si fossero placati gli animi (Si
ricorda, poi, che Andrea
Capuano
fu nel 1665 l’eletto del seggio di Portanova come G.
Battista Capuano, in seguito, nel 1669).
La sede del seggio fu eliminata completamente
dalla commissione ottocentesca del Risanamento di Napoli e
fu lasciata a ricordo nel 1898 una lapide. |
La sede del seggio è oggi ricordata da una targa posta in
piazza Portanova. |
Il Mazzella riporta le seguenti famiglie
ascritte nella sua opera (1601):
Capasso,
Capoano,
Anna, Bonifatio,
Agnese,
di
Costanzo,
Coppola, Gattola,
Gonzaga,
Liguoro, Lottiero,
Miraballo,
Moccia,
Mormile, Sannazzaro,
Sitica.
Le estinte, invece, erano: Acerra, Adimario, Arbusto, Amala Atellano, Alagona,
Annecchina, Arcamone,
Basso, Bruno,
Bolgarello, Burgarella, Brissio, Caputo, Capella, Casatina,
Capisuccio, Cantelana,
Cantelmo,
Casamatta, Camerina, Cerva, Castellina, Castagnola del
Cardinale, Cicaro,
Cicala, Collalto,
Collemedio, Corrario, de Albertis, de Arco, de Acebaio, de
Diano, de Omnibono, de Comitibus, Edina, Farinola, Franco,
Fogliano, Frangipane, Ficerio, Flandrino, Gambatella,
Gentile, Gorvo, Grissina, Manfrone, Massovia, Mastaro,
Marolio di Loreto, Monturco, Monticello, Monforte, Miscini,
Nardino, Novelletto, Ollopesce, Ossiero, Oringa, Orlanda,
Olzina Secretario, Pulzina di Mirabella, Pictavia di Cotrone,
Pico della Mirandola, Pozzella, Ravignano, Ronchella,
Sassone, Serignana,
Sforza,
Scannasorice, Siscale di Aiello, Stagna Sangue, Toso,
Turtello, Tora, Vallone, Valignana.
Le famiglie della citata opera del Torelli
erano:
Aponte, Capuano,
Costanzo, Coppola, Gattola, Liguoro, Miroballo, Moccia,
Mormile, Sitica.
Al 1769 il Capecelatro
individua il seguente elenco: Agnesi, Aponti, Capuani,
Coppola, Costanzi, Gattoli, Gonzaghi, Liccuori, Miraballi,
Mocci, Mormili, Sitica.
Le famiglie “spente” erano:
Anna, Arco, Bonifazii, Bulgarelli, Farafalla,
Cafatini, Caputi, Castagnola, Cicari, Freapane, Ravignano,
Ronchella, Sannazzaro, Scannasorice, Sassone.
Le famiglie rimaste ascritte alla data del 1800 (libro
d’Oro)
furono:
Albani,
Albertini,
Altemps, Aragona,
Capasso
delle Pastene,
Capuano,
Carignani,
Cavalcante,
Cito,
Grimaldi, Liguoro di
Polleca - di Presicce,
Marulli,
Mastrilli,
Mormile di Carinari - di Castelpagano, Perlos,
Sambiase,
Serra di Cassano.
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Le famiglie nobili “fuori seggio” |
Infine, occorre annoverare le famiglie nobili
“fuori seggio”, che “non godono gli onori de’ Seggi. Sono
parimente anch’esse una parte della Napoletana Nobiltà, di nulla
a quella de’ Seggi inferiore”. Queste risultarono essere,
secondo il Capecelatro:
Ajerbi del sangue reale di Aragona,
Aquini,
Belprati, Beltrani, Castrocucchi,
Filingeri, Marrieri, Arena,
Gambacorti, Gargani, Gattinarii Lignani,
Grimaldi, Marchesi,
Mastrogiudici, Missanelli,
Medici, Mendozza, Monti, Oria, Palagani,
Pinelli,
Rossi di Parma de’ Conti di Cajazza e duchi delle Terze, Ruffi, Siscari, Soardi, Scaglioni,
Ratta, Ruota, Toraldi, Torelli,
Tufi, della Noja, Valva. |
©
Napoli -
stemma del Sedile di Popolo |
Per comprendere la composizione sociale della
classe del Popolo, è significativo considerare la definizione
del Tutini, in cui precisa la distinzione tra “popolani” e
“plebei”. I primi erano prevalentemente formati da mercanti,
artigiani e tutti gli addetti alle libere professioni, cioè il
“popolo grasso”.
Tale seggio appare per la prima volta nei
capitoli di re Roberto d’Angiò come seggio “de populo dicitur
grassus”, seppur si ritiene di più antica origine. E’,
comunque, appurato che detto sedile fu confermato dalla regina
Giovanna II al
popolo, quale premio per la fedeltà nella sommossa cittadina
contro l’oppressione del marito conte Della Marca.
Fu chiamato anche seggio della “Sellaria”,
dall’area occupata, o “Pittato” per i particolari affreschi
presenti nell’immobile che lo ospitava.
Sotto re Alfonso I
d’Aragona ne fu ordinata la sua demolizione il 10 dicembre 1456,
in quanto, secondo talune fonti, necessitava ampliare la via
della Sellaria (luogo questo adibito allo svolgimento delle
giostre cavalleresche o “barrere”), in base al progetto
urbanistico del tempo. Altre fonti, invece, in merito a tale
soppressione evidenziano delle ragioni politiche, quali
l’esclusione del popolo dall’esercizio del potere
politico-amministrativo della città.
A causa dei tumulti, il
successivo re Ferrante I riconcesse ai rappresentanti del popolo
un locale del monastero di Sant’Agostino (alla Zecca) per poter
rendere omaggio a San Gennaro, ordinando per tale occasione
religiosa la costruzione di un palco ligneo con drappi
(“catafalco del Pendino”). Sotto gli aragonesi, dunque, il
popolo poté godere del solo diritto di rappresentanza
protocollare (riunioni per cerimonie religiose), senza godere
invece dei diritti politici. Difatti, si verificò che in data 23
ottobre 1496 il rappresentante del Popolo, Ludovico Folliero,
partecipò con gli altri cinque nobili rappresentanti al ligio
omaggio a re Federico d’Aragona nella sala dell’Incoronata.
Soltanto due anni dopo, nel 1498, regnando lo stesso Federico,
il popolo recuperò pari dignità rispetto ai nobili, in quanto il
proprio rappresentante fu chiamato a firmare un Capitolo
d’accordo che prevedeva il solenne giuramento di fedeltà al
sovrano aragonese e suoi successori.
Carlo VIII, poi, con
decreto del 15 maggio 1495 concesse nuovamente al popolo il
diritto di radunarsi presso il proprio sedile, la cui sede fu
fissata nel chiostro del convento di Sant’Agostino alla Zecca.
Il nuovo eletto del Popolo fu Giovanni Carlo Tramontano che
mantenne la banca del Popolo con 29 capi popolo, detti
consultori.
Tale piazza non fu organizzata a quartieri, come
per i sedili nobiliari, bensì suddivisa in ventinove “ottine”,
luoghi ove si riunivano le famiglie popolari delle ventinove
antiche strade di Napoli.
L’ottina, in principio, si compose di
solo otto famiglie, poi passò a dieci e faceva riferimento
sempre ad una chiesa. Per ogni ottina, poi, si eleggeva un
capitano del Popolo o Capo Popolo, scelto tra sei cittadini,
che a sua volta venivano nominati con voto segreto (poi
sostituito con nomina regia o votazione pilotata dal re) di due
“procuratori”. Quando la nomina dell’eletto del Popolo divenne
reale in epoca spagnola, costui provvide alla scelta dei sei
uomini della piazza.
Il Capecelatro
evidenziò quest’aspetto di sudditanza e fedeltà al re in questo
processo di nomina, tanto da influire sulle scelte politiche del
rappresentante, che aderiva “sempre ai vicerè in guisa tale,
ch’eran più tosto mezzo ad effettuare il loro volere, che
procuratori dell’utile del popolo a loro commesso”. Questo
eletto, comunque, andava a rappresentare la piazza del Popolo
presso il Tribunale di S. Lorenzo, come gli fu consentito di
esercitare giustizia sommaria (privilegio di re Ferdinando il
Cattolico del 28 maggio 1507) sui venditori che esercitavano il
commercio in piazza del mercato tra il lunedì ed il venerdì (il
condannato aveva diritto di appellarsi al prefetto dell’Annona).
Inoltre, l’eletto di Popolo aveva il diritto a nominare i
“capitani di guerra” e reclutare una milizia cittadina in caso
di guerra. Queste nomine del “maestro di campo” e dei capi della
milizia civica, spettanti al sedile di Popolo, venivano
presentate al Viceré tra varie candidature del ceto
aristocratico. In epoca spagnola, a seguito della rivolta di
Masaniello, il seggio rischiò di
essere soppresso e solo grazie all’intervento dell’Arcivescovo
di Napoli,
Filomarino, riuscì a
riportare la pace salvandolo (26 agosto 1647).
Inoltre, il seggio di Popolo presentava:
1 - Arma del seggio: era rappresentata da una “P” maiuscola
(Popolo) di nero in campo oro e rosso. Tale lettera fu
sostituita con una “C” (Civitas) nel tempo che resterà poi come
emblema civico dell’amministrazione di Napoli.
2 - Le citate “ottine” comprendenti il seggio
fino all’epoca dell’abolizione dei sedili furono: Capuana,
Armieri, Case Nuove, Fistola, Donnalbina, Forcella, Bajano,
Mercato Grande, Loggia di Genova, Mercato Vecchio, Nido, Porta
del Caputo, Rua Catalana, Rua Toscana, Porto, S. Angelo a Segno,
Santa Caterina Spina Corona, S. Gennaro all’Olmo, S. Giovanni
Maggiore, S. Giovanni a Mare, Santa Maria Maggiore, S. Giuseppe
a Carità, Della Scalesia, Sellaria, Vicaria Vecchia, Vergini,
Spezieria Antica, S. Spirito di Palazzo.
3 - Il regolamento, “capitoli”, di seggio fu
approvato , con i suoi 20 articoli, il 22 ottobre 1522.
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La regina di Napoli
Giovanna II di Durazzo nel
1420
abolì i seggi minori e le famiglie ad essi appartenenti furono
aggregati ai seggi maggiori e creò il seggio del Popolo.
Nel 1684 il re di Napoli
Carlo II d'Asburgo-Spagna
soppresse il Sedile di
Forcella che fu incorporato in quello di Montagna.
Nel 1800 il re di Napoli
Ferdinando IV di Borbone
abolì il Tribunale di
San Lorenzo e tutti i Sedili; fu istituito il Tribunale Conservatore
della Nobiltà del Regno di Napoli che nel 1807 pubblicò il
Libro d'Oro napoletano ovvero "La Platea delle famiglie
Patrizie Napolitane".
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Questo modello socio-culturale di civiltà,
diffuso nell’area sud-mediterranea della nostra penisola, entrò
in crisi a fine del secolo XVIII, con l’invasione delle truppe
franco-napoleoniche ed il sostegno politico della classe
settaria dei liberali. La rivoluzione massonica-garibaldina ed
il processo di Unificazione d’Italia cancellò definitivamente
tale realtà organizzativa delle classi sociali, lasciando
all’aristocrazia solo il ricordo dell’onore goduto in passato.
Con la scomparsa del “governo dei nobili” nelle province
Meridionali, si chiude, così, una gloriosa pagina di storia del
Mezzogiorno d’Italia, che
il principe di
Canosa profetizzò nelle suddette parole: “distruggete in una
Monarchia (Stato) le prerogative dei Signori, del Clero, della
Nobiltà, delle Cittadi, ed avrete tosto uno Stato Popolare
ovvero dispotico”.
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LA DEPUTAZIONE DELLA CAPPELLA DEL TESORO DI
SAN GENNARO
a cura di
Pierluigi Sanfelice di Bagnoli |
Nel 1500 la città di Napoli patì sofferenze
di ogni genere, infatti, proprio ad inizio secolo dal 1506
al 1507, una carestia mise in ginocchio la comunità. Nel
1526 una epidemia di peste sconvolge la città, decimando
letteralmente i suoi abitanti e poi la guerra, che metteva a
dura prova le capacità del territorio, terminò soltanto nel
1529. |
Alla luce di questi eventi, spinti dalla
volontà popolare, gli Eletti della città che formavano il
Tribunale di San Lorenzo, (il consiglio comunale), si
persuasero a fare voto a San Gennaro, affinchè intercedesse
“a che la città fosse salvata dalla fame, peste e guerra”.
Pertanto i rappresentanti dei Seggi Nobili e
il rappresentante del Popolo, il 13 gennaio 1527,
anniversario della traslazione delle ossa di San Gennaro da
Montevergine a Napoli, fecero voto di erigergli una nuova e
più bella Cappella. L’impegno fu assunto solennemente e
sottoscritto alla presenza di Donato, Vescovo di Ischia,
Vicario Generale del Cardinale, Vincenzo
Carafa.
Firmatari del documento furono: Marino
Tomacelli per Capuana; Francesco
d’Alagno per Nido; Galeazzo
Cicinello e Antonio
Sanfelice per Montagna; Alberigo
de Liguoro per Portanova; Antonio
d’Alessandro per Porto e per il Sedile del Popolo Paolo
Calamazza.
Il sedile di Montagna è rappresentato da due Eletti a
differenza degli altri, questo perché il Seggio in questione
aveva assorbito quello antico di Forcella.
Fu
proprio in questa data che si gettarono le basi per la
costituzione della Deputazione della Cappella del Tesoro di San
Gennaro. |
©
Napoli, via Duomo 149 -
Museo
Tesoro San Gennaro |
E’ riconosciuto dalle Bolle dei Pontefici Paolo V ed Urbano VIII
che il diritto di Patronato non proviene da un privilegio
Apostolico bensì da una dotazione laicale sorta con beni
patrimoniali e di esclusiva provenienza laicale.
Questa fondazione e dotazione fu originaria, vera, fondata sul
fatto, piena, completa in ogni sua parte e fornita di tutti i
requisiti costituenti diritto.
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I
lavori della Cappella, dichiarata monumento nazionale il 25
febbraio del 1891, furono conclusi nel 1647; alle spalle
dell’altare maggiore vi è la cassaforte, le cui porte in argento
finemente intarsiato, raffigurano le ampolle col sangue. In essa
vengono custodite le reliquie del Santo Martire consistenti in:
il busto nella cui testa vengono custodite le ossa del cranio di
San Gennaro e il reliquiario contenente le ampolline con il
venerato sangue.
Le porte d’argento che racchiudono la cassaforte,
vengono aperte con quattro chiavi, custodite dalla
Eccellentissima Deputazione della Real Cappella del Tesoro di
San Gennaro.
La Cappella è quasi
sempre
officiata da S.E. Reverendissima il Cardinale,
Arcivescovo di Napoli, con
autorizzazione dell’Abate Tesoriere,
delegato Apostolico e
da 12 cappellani che sono insigniti della dignità e privilegi
domestici di Sua Santità. Il Tesoriere, scelto tra i 12
cappellani, è insignito della dignità di protonotario Apostolico
con i privilegi degli Abati Cassinesi(62).
La parte amministrativa come pure la nomina dei cappellani è affidata alla Deputazione, i cui
componenti (12 oltre il sindaco, che ha sostituito il Re,
pro-tempore che ne è Presidente, di cui 10 appartenenti alle
famiglie nobili del Patriziato Napoletano e due del Popolo)
vengono nominati con decreto del Presidente della Repubblica.
La
nomina dell'Abate Tesoriere viene effettuata dai Prelati fra il
loro ceto; la decisione passa alla S. Sede per le formalità
d'uso(63).
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© Le ampolle con il sangue di San
Gennaro |
I
Deputati rappresentano storicamente gli antichi Seggi della
città e sono due per ciascun Seggio.
Nel 2005, dopo 1700 anni dal Martirio di San
Gennaro e 700 anni dopo la realizzazione dell’Imbusto, la
Deputazione è rappresentata:
Il Sindaco di Napoli: Onorevole Rosa Russo
Iervolino, Presidente
Don Carlo
di Somma
Principe del Colle, vice Presidente
Duca Don Riccardo
Carafa d’Andria
Conte Don Alessandro
d’Aquino di
Caramanico
Marchese Don Pierluigi
Sanfelice di
Bagnoli
Dott. Vittorio Accardi
Don Girolamo
Carignani
dei Duchi di Novoli
Conte Don Agostino
Caracciolo di Torchiarolo
Don Riccardo
Imperiali dei Principi
di Francavilla
Duca Don Giovanni
Pignatelli della Leonessa
Don Fabio
Albertini dei Principi di
Cimitile
Il sabato che precede la prima Domenica di
maggio e il 19 settembre indossano per l’occasione il frak con
panciotto nero e fascia rossa. Il panciotto di colore nero sta a
rappresentare il lutto, mentre la fascia in quanto
rappresentanti della città e il colore rosso per il martirio di
San Gennaro. |
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Il 26 maggio 1628, il consiglio comunale, detto
Tribunale di San Lorenzo in quanto risiedeva nell’omonima
Chiesa, su richiesta del Baronaggio, votò affinchè alcuni Santi
protettori della città fossero dichiarati protettori del Regno e
che se ne chiedesse l’assenso Pontificio, tramite il Cardinale
Arcivescovo di Napoli.
Oltre a San Gennaro furono dichiarati protettori
del Regno: San Francesco di Paola, S. Andrea Avellino, madre
Teresa di Gesù, S. Aniello, S. Tommaso d’Aquino, S. Attanasio,
S. Agrippino, S. Severo, S. Eusebio, S. Aspreno, S. Patrizia, S.
Filippo Neri, S. Antonio di Padova, S. Blasio, S. Nicola di
Bari, S. Francesco Saverio e il beato Gaetano Tiene. Le statue
dei compatroni sono nella cappella del Tesoro.
Tra i 54 compatroni di Napoli,
tutti rappresentati dai
busti d’argento del Tesoro di San
Gennaro, vi siano anche sette santi spagnoli: San Domenico di
Guzman, San Francesco Saverio, Santa
Teresa d´Avila, San Francesco
Borgia,
Sant'Ignazio di Loyola, San Vincenzo Ferrer, San Pasquale Baylon.
I Deputati al Parlamento della città che votarono la richiesta
erano:
per Capuana: Ferrante
Dentice e Lutio
Caracciolo
per Montagna: Battista
Rocco
e Francesco
Sanfelice
per Nido: Tommaso
Carafa e Gio. Paolo del Doge
per Porto: Gio. Battista
Pagano e Francesco
Serra
per Portanova: Matteo
Capuano e Giulio Cesare
Moccia
per il Popolo: Battista Apicella e Lorenzo d’Agostino.
"La Deputazione del Tesoro, da sola, rivive il Patriziato, pur
nei suoi più ristretti compiti istituzionali che le sono
riconosciuti. Si può dire, quindi, che i Patrizi Napolitani –
tutti i Patrizi Napolitani – conservino, attraverso questa
Istituzione, una frazione del potere politico ed amministrativo,
in quasi tutte le altre società irrimediabilmente perduto. Esso
comporta pertanto, con un sentimento di giusto orgoglio, un
impegno morale da non trascurare.
Enzo Capasso Torre delle Pastene"
|
Nel corso dei secoli il Tesoro di San Gennaro
si è arricchito di oltre 21.000 opere, tra cui favolosi
gioielli, capolavori caravaggeschi, tele di Luca Giordano,
argenti, diamanti e rubini.
Oggi è il patrimonio artistico più ricco del
mondo, superiore a quello della Corona d'Inghilterra e dello Zar
di Russia. |
I SEDILI
DELLE ALTRE CITTA' |
AMALFI (della costa di): Amalfi, Maiori, Minori, Ravello, Scala e
Tramonti.
AVERSA: di San Luigi
CAPUA:
dell’Olivo o dei
Cavalieri (il più antico, la cui sede era di fronte a
palazzo Lanza),
dei giudici,
degli Antignano.
La Consulta del Regno d’Italia riconobbe Capua come Piazza
aperta e non chiusa, per cui riconobbe per gli appartenenti
al suo sedile il titolo di nobile e non di patrizio.
CROTONE:
S. Dionigi
l'Areopagita
POTENZA:
Seggio dei Possidenti
SANT'ARCANGELO (PZ)
SALERNO:
Portanova, Portarotese e Campo.
SORRENTO:
Dominova e di Porta.
TRANI:
Portanova, Campo.
TROPEA:
Portoercole. |
________________
Note:
1) Parrino, Teatro de’ Viceré il
Conte di Castrillo, T. III, pp.193-194.
2) S. De Renzi, Tre secoli di
rivoluzioni napoletane, Napoli 1885, p.29.
3) S.Volpicella, Studi di
Letteratura, Storia ed Arti, Napoli, 1876, p.15.
4) Cfr.C.Porzio, La congiura dei
Baroni del regno di Napoli contro il re Ferdinando I, Milano
1965,ristampa Ed.Rizzoli.
5) cfr.E.Perito, La congiura dei
baroni e il conte di Policastro, Bari, 1926.
6) Santoro, La spedizione di
Lautrec nel regno di Napoli, a cura di T.Pedio, Galatina, 1972,
p.58.
7) Ibid.
8) cfr.N.Cortese, Feudi e Feudatari
napoletani nella prima metà del cinquecento, Napoli, 1929,
pp.28-150.
9) Le assemblee furono quelle del
1536, 1538, 1539, 1541, 1543, 1546, 1549, 1552.
10) S.De Renzi, Op. cit., p.52.
11) cfr.U.Folieta, Tumultus
Neapolitani sub Petro Toleto, Napoli, 1769; A.Liberati, Tumulti
avvenuti in Napoli nel 1547, Siena, 1910.
12) S. De Renzi, Op.cit., p.74.
13) T.Costo, Dell’Istoria del
Regno di Napoli, Napoli, pp.399 e ss.
14) G. D’Agostino, Re Viceré
Rivolte, Napoli, 1993, p.101.
15) Cfr. M. Bisaccioni, Historia
delle Guerre Civili de gli ultimi tempi, Venezia, 1652. Scrive
l’autore (p.449) in merito a questi rapporti di alleanza tra
nobili e popolo che “togliere il Genoino a Maso e al popolo era
un togliere un timone ad una nave agitata da’flutti”.
16) S. De Renzi, Op. cit., p.106.
17) V. Conti, La rivoluzione
repubblicana a Napoli e le strutture rappresentative, 1647-1648,
Firenze 1984, p.5.
18) A History of the late
revolutions in the kingdom of Naples del 1652.
19) M.Miato, Maolino Bisaccioni,Istoria
delle Guerre Civili di Napoli, Firenze, 1991,pp.XIII-XIV.
20) Archivio di Stato di Firenze,
Mediceo, 4146, Napoli 22 marzo 1648. Il carteggio di Vincenzo de
Medici riferisce, invece, dell’esistenza di 32 senatori, di cui
10 arcivescovi, 10 deputati della nobiltà, 10 deputati del
popolo, 12 deputati delle Provincie.
21) La neonata repubblica
garantì: 1.la nomina dell’eletto del popolo mediante “pubblico
parlamento” da tenersi presso la chiesa di S.Agostino con la
partecipazione dei capi delle Ottine; 2. l’Eletto del popolo
restava in carica sei mesi ed aveva “tanti voti quanti i cinque
sedili de’nobili”; 3. l’abolizione della gabella sulla frutta e
la spettanza al popolo della determinazione delle nuove
imposizioni; 4. la possibilità di rimanere in armi per il
popolo, fino a quando non giungevano le conferme reali della
Spagna 5. il divieto agli stranieri di mantenere alcuni
principali uffici (cfr.S.De Renzi,Op.cit.,p.137)
22) F.Capecelatro, Diario,
contenente la storia delle cose avvenute nel reame di Napoli
negli anni 1647 al 1650, Napoli, 1665, parte III, p.497.
23) Secondo alcune fonti
storiche, Masaniello respinse il messo dell’ambasciatore
francese di Roma, con sua proposta di sottomissione alla corona
di Francia, asserendo che “non voleva altra corona se non quella
della Madonna” ( S. De Renzi, Op.cit., p.120). I suoi
successori, poi, mal tollerarono la fedeltà alla corona
spagnola.
24) Il duca di Guisa fu catturato
sulle colline di Santamaria, mentre tentava di mettersi in
salvo, e rinchiuso nel castello di Gaeta. Fu imprigionato anche
il principe di Montesarchio, torturati Gennaro Annese, Tiberio
Ferro, Paolo Bicchiero, Pasquale di Santantimo ed Andrea Ruocco.
25) G. D’Agostino, Op.cit.,p.105.
Si aggiunga tra le cause il diffuso clima anti-spagnolo,
presente nel ceto aristocratico, contro il quale si era
scagliato il viceré Medinaceli con ogni forma repressiva.
“Furono mandati in esilio i principi di Montesarchio e di Troja
ed il principe Carafa della Rocella, e don Diomede Carafa duca
di Maddaloni era morto in una fortezza presso Madrid…nelle
carceri di Castelnuovo il duca di Torella per atti di superbia;
aveva mandato il duca di Airola prigioniero in Capua…Il principe
della Riccia fu sostenuto nel Castel di S.Eramo per ingiustizie
commesse a due suoi vassalli di Montoro” e poi perseguitato
tanto da trovare rifugio presso il monastero dei padri Crociferi
a porta S.Gennaro. Numerosi nobili ivi accorsero a sostegno del
principe e “fu così che si concepì la prima idea della
cospirazione” contro il dispotismo ispanico (S.De Renzi, Op.
cit., p.202). L’autonomismo dalla Spagna si prefiggeva il
“ripristino degli antichi privilegi goduti dal patriziato sin
dall’epoca degli angioini”(G.Vico, La congiura dei principi
Napoletani del 1701, a cura di E. De Falco, Napoli, 1970, p.12).
26) Gran parte di questi patrizi
apparteneva “alla nobiltà di spada, sfarzosa e pomposa ma povera
di potere economico-politico”(G.Vico, Op.cit.,p.17).
27) Il duca di Vasto aveva
raccolto una banda di ribelli, guidata da Scarpa-leggia, che da
Benevento si spostò verso Napoli a seguito del duca di
Castelluccia, dei Carafa e del principe di Macchia. Da porta
S.Gennaro, costoro si portarono nei quartieri bassi,
raccogliendo circa seimila persone, per poi raggiungere la
Vicaria, ove furono liberati prigionieri ed incendiato e
saccheggiato il tribunale ed i suoi archivi. Si spostarono in S.
Lorenzo, mentre il principe Macchia prese il campanile di
S.Chiara, lo Spirito Santo, le fosse del grano, giungendo al
seggio di Porto e mettendo in ritirata il viceré in Castelnuovo.
28) Carlo Di Sangro fu
decapitato, il Capece evitò analoga condanna suicidandosi, i
Carafa e gli Spinelli fuggirono in esilio, raggiungendo il
principe Eugenio di Savoia, mentre il principe di Riccia, il
duca Giuseppe d’Alessandro di Pescolanciano, i fratelli
Acquaviva e tanti altri nobili napoletani furono condotti nelle
prigioni di Castel Nuovo, poi liberati dalle milizie austriache
del conte di Daun. Il Di Capua, gli Acquaviva ed il Chassignet
non rividero la libertà, perché trasferiti nelle carceri della
Bastiglia, in Francia.
29) Tale definizione è attribuita
a Vincenzo Cuoco, il quale intese riferire che si trattò di un
moto non generato dalle popolazioni locali,come avvenne per la
rivoluzione francese del 1789, bensì imposto esternamente dagli
eserciti invasori francesi nel regno di Napoli.
30) Di fatto, già nel 1794 taluni
aristocratici furono condannati per coinvolgimento nei tumulti
contro il governo, quali: L. de Medici, il Colonna di Stigliano,
il conte di Ruvo, il duca di Canzano.
31) Queste furono chiamate:
Sannazzaro, Montelibero, Colle Giannone,Umanità, Sebeto,
Masaniello.
32) Il Capece Minutolo fu autore
delle opere “Discorso sulla Decadenza della Nobiltà” (1803), “I
pifferi di montagna” (1820), “Perchè il sacerdozio dei nostri
tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi ugualmente
generosi ed interessati come gli antichi per la causa della
monarchia e dei re”. Sostenitore dell’utilità della monarchia e
difensore dei privilegi della classe aristocratica-baronale,
partecipò alle vicende del ’99, asserendo quale eletto del
sedile di Capuana, che l’autorità governativa, in assenza del
re, doveva spettare ai nobili e non al vicario Pignatelli.
Avverso, pure, alle decisioni giacobine di abolizione dei feudi
senza indennizzo per i proprietari, si sottrasse ad una condanna
a morte decretata dai repubblicani, riuscendo a fuggire.Non
evitò, però, l’arresto per complicità con i rivoluzionari, con
il rientro del re Ferdinando. Il Capece Minutolo nella sua opera
“Discorso sulla Decadenza della Nobiltà” illustrò la situazione
di crisi del ceto aristocratico, ormai svilito delle sue antiche
funzioni di “generosità”, nonché sempre più escluso dal governo
reale assoluto, grazie all’opera di diffamazione svolta dai
magistrati e ministri, nonché dai “filosofi” miscredenti, che
lottavano contro il Trono e l’Altare. Tale tesi prese spunto
dall’opera dell’abate Augustin Barruel e da quella del de
Montesquieu, con la quale si ribadiva che la nobiltà
rappresentava l’essenza reale per la Monarchia (“dove non vi è
Monarca non vi è nobiltà,ove non vi è nobiltà non v’è Monarca”)
e senza la quale, il sovrano diventava dispotico ed assolutista,
con rischio di essere rovesciato dai rivoluzionari (“Il chiamare
privatamente a sé il Sovrano tutto il potere snerva l’energia
dei sudditi”).
33) P. Giannone, Istoria civile
del Regno di Napoli, T.IV, Napoli, 1821, pp.253-254.
34) Cfr. M.T.Varrone, De Lingue
Latina liber 15,nel lib.3: “Phratria, est Graecum vocabulum
partis hominum, ut Neapoli etiam nunc”. Pietro della Senna
(Testo di Strabbone) conferma questa costumanza greca,
introdotta nella Partenope ellenica come lo fu per il Ginnasio,
scrivendo “Plurima tamen di Graecorum Institutorum supersunt
vestigia, ut Gymnasia Epheboru Cactus, Fratriae”.
35) Cfr. JJ. Draco, De Origine et
jure Patriciorum, Libri tres, Basileae,1627.
36) Cfr. O. Gentili, De
Patriciorum Origine, Varietate Praestantia et Juribus, Libri
quatour, Romae, 1736.
37) Esiste un’estesa storiografia
sulle costumanze del patriziato (patres=fondatori) nell’epoca
della Roma repubblicana ed imperiale. Alcuni cenni per ricordare
i percorsi di crescita culturale dei giovani rampolli nelle arti
della grammatica, della retorica e filosofia dell’antica Grecia.
Le consuetudini dei matrimoni giovanili, combinati dai genitori,
servì a garantire alla Gens di appartenenza un maggior
prestigio. Si annoverano, poi, le tradizionali cariche
politico-amministrative, cui il nobile poteva ambire, quali:
questore (amministrava il tesoro statale), edile (sovrintendeva
ai lavori pubblici), pretore (presiedeva ai tribunali), console
e proconsole (con funzioni di comando militare e di governo
della Provincia). Era, quindi, consuetudine affidare incarichi
politici ai “membri delle antiche e illustri famiglie” perché
ritenute custodi secolari del buon governo della città. Difatti,
l’opinione diffusa sull’alto senso di
responsabilità-moralità,sul sentito patriottismo, goduto dalla
nobiltà di sangue portò una grande maggioranza di patrizi a
coprire importanti cariche pubbliche, tra cui il Senato romano.
Per renderli inattaccabili, il senato-consulto del 219 a.C.
vietò a costoro di dedicarsi “agli affari, alla banca, al
commercio”, cioè a tutte quelle attività che assicuravano lauti
guadagni al ceto medio dei cavalieri (cfr R. Ferruzzi, Roma
dalle origini alla fine dell’Impero d’Occidente, Torino, 1947).
I membri del patriziato, elevati al rango senatoriale, in epoca
romana e post-barbarica, oltre a rispettare il divieto di
svolgere “mestieri ignobili” (tra cui anche l’attività teatrale
e gladiatoria citata dal senato-consulto del 22 a.C.) dovevano
mantenere comportamenti morali adeguati alla propria “dignitas”
familiare o meglio a quel “rango privilegiato che sottrae
l’individuo alla sorte comune, ma esige anche da chi la possiede
una condotta esemplare”(cfr.A.Giardina, L’uomo romano, Bari
1994; AA.VV., Cavalli e cavalieri nella storia, nella
letteratura e nell’architettura del Molise, Campobasso, 2003).
Il ceto aristocratico aveva, quindi, per il rango sociale
riconosciuto, un “onore” da tutelare e salvaguardare nella
discendenza di sangue.
38) C. Tutini, Dell’origine e
fundazione de seggi di Napoli,del tempo che furono istituiti e
della separatione dei Nobili dal Popolo,Napoli, 1644, Cap.4-6.
39) F. Pagano, Istoria del Regno
di Napoli, Palermo, 1832, p.423.
40) Cfr. F. Capecelatro, Degli
Annali della città di Napoli, P. II, 1631-1640, Napoli, 1850.
41) N. Della Monica, Le grandi
famiglie di Napoli, Roma, 1998, p.12
42) La tradizione baronale delle
province del Mezzogiorno d’Italia fonda le sue radici nel
sistema romano di acquisizione delle terre da parte dei coloni e
dei fedeli miles (cui spettava ricompensa in terre, “donativa”,
al termine del servizio o per meriti di guerra). La proprietà
terriera comprendeva la villa o fortilizio, dimora del signore,
presso cui si avvicinarono le popolazioni locali (familiari,
amici, clienti) per fuggire alle incalzanti scorribande delle
tribù barbare, avvicendatesi sul territorio italico da metà
dell’anno quattrocento. Costoro ricambiavano la ricercata
protezione del padrone-notabile con sue soldatesche, offrendo
servizi ed impegni, cioè “l’accomandigia” basata sul
principio di somma fedeltà e fratellanza d’armi (cfr. R.Barber,
Il mondo della cavalleria, Milano, 1974). Questo patto di
fedeltà verso il signore-sovrano, in cambio di protezione e
sostentamento, era poi garantito dall’onore (“signum
magnanimitatis”) del feudatario (l’Acquaviva definì l’onore
quale “sole della vita; come il sole fa distinguere i colori,
così esso fa distinguere il gentiluomo dal furfante”). Tale
forma di servizio contraccambiata rappresenta il perno su cui si
formò il sistema socio-economico del vassallaggio feudale, sia
nel regno longobardo con i suoi ducati che in quello franco con
le sue contee e marchesati. La baronia feudale cominciò,
pertanto, ad essere trasmessa nella rispettiva discendenza
familiare primogenita mascolina, nonché essere
istituzionalizzata con un titolo nobiliare di concessione regia.
Queste signorie mantennero la loro indipendenza e furono
impegnate ad ingrandire i propri possedimenti, accrescendone la
potenza a spese della corona, tanto da rappresentare una sorta
di stato nello stato (E.Gothein, Il Rinascimento nell’Italia
Meridionale, Firenze, 1915, p.5). Un noto esempio è la storia
del ramo napoletano degli Orsini che giunsero a possedere, sotto
re Ferrante, cinque ducati e sette Grandi Uffici della Corona.
Quante più proprietà fondiarie feudali possedeva il Casato,
tanto maggiore era la potenza della famiglia, che spesso si
riuniva sotto un riconosciuto capo-famiglia (è il caso dei “Caldoreschi”,
gruppo familiare dei Caldora, che erano soliti presentarsi in
gran numero ed uniti nei parlamenti di Ferdinando il Cattolico,
dei Sanseverino, dei Caracciolo etc.), nonostante le consuete
liti. Si ricorda, poi, che ai vassalli, secondo il diritto
feudale, il signore concedeva il permesso di far celebrare i
matrimoni. Taluni baroni, inoltre, ebbero il diritto di battere
moneta (principe di Taranto e di Salerno), nonché di esercitare
il potere giudicante nel feudo o di nominare i governatori e
capitani. Nel tempo, crebbe l’interesse dei baroni verso le
attività speculative, garanti di buoni e facili guadagni
(commercio del grano e dell’olio), mentre si astennero
dall’esercizio dell’agricoltura per il mercato. Per tali
prerogative rivendicarono forme di governo autonomo ed
individualista con l’appoggio delle dinastie straniere, di cui
detti signori si fecero ardenti sostenitori in base alle
circostanze (come nel caso del partito angioino e durazzesco).
Dalla regnanza degli Angioini, in poi, la corona cercò di non
inimicarsi i feudatari, offrendo loro cariche e titoli in cambio
di fedeltà ed alleanza. I contrasti e le lotte, comunque, non
mancarono quando una delle parti non rispettò gli accordi e
consuetudini. I baroni giunsero a mettersi al servizio anche di
stati forestieri (come per la Repubblica di Venezia) in qualità
di mercenari. Difatti, si contano tra le loro fila numerosi
capitani e famosi condottieri (Giacomo Caldora, Francesco
Sforza).
43) Discorso Istorico sopra
l’ordine, ossia milizia del cingolo militare in Sicilia dal Gran
Conte Ruggeri istituita, del sacerdote Giovanni d’Angelo e
Cipriani (testo di fine ‘700).
44) Tra i provvedimenti del 1298
per i membri del seggio di Capuana vi era quello di astenersi
per cinque anni da spese superflue, quale l’abbigliamento
lussuoso e sfarzoso, di cui dava sfoggio la nobiltà per
confermare il proprio rango sociale.
45) Sotto gli Svevi si verificò
che vari esponenti del patriziato cittadino entrarono nelle
schiere delle famiglie baronali per i meriti ed i favori
riconosciuti dai sovrani, nonché per matrimoni contratti. Tale
nobiltà di seggio cominciò, così, a godere di una particolare
importanza politica, riconosciuta in tutto il regno per la loro
residenza cittadina in Napoli (“Da molti secoli infatti ella era
stata la capitale della Campania e la sede del governo, e per
nobiltà e riputazione vinceva senza contrasto tutte le altre
città”. I. Bracelli, De Bello Hispaniensi, Roma, 1573, p.14 t.)
e soprattutto per il significativo numero accentrato e ben
organizzato di patrizi ivi dimoranti. Queste famiglie patrizie
andarono mostrando interesse, a quel tempo, nella produzione
delle proprie terre, da cui traevano prodotti per il proprio
consumo. Difatti, per tale motivo, re Federico ritirò la legge
sulla mobilizzazione dei demani, con cui si consentiva anche ai
non nobili l’acquisto di dette terre reali (cfr.E.Gothein,
Op.cit., p.35). L’interesse per l’agricoltura e la guerra fu in
seguito gradualmente sostituito con quello per lo studio del
diritto (jus longobardorum), che formò diversi funzionari fedeli
alla corona, impiegati nei tanti uffici capitolini. Iniziò,
così, a costituirsi, una nobiltà di funzionari di seggio (cfr.E.Gothein,
Op.cit., p.39), che approfittò talvolta della propria posizione
per curare ed accrescere gli interessi familiari. Invece, a
questo “servizio per il Re”, taluni esponenti cadetti anteposero
il “servizio per la Chiesa”, acquisendo varie cariche
(sacerdoti, monaci, vescovi, suore etc.).
46) Cfr.Registro di Re Roberto,
a.1338. Circa questa lite il Capecelatro (F.Capecelatro,
Origine..Op.cit.,p.123) riferisce essere stata una contesa tra
la nobiltà di Porto e Portanuova contro quella di Nido e Capuana
su pari lignaggio. La sentenza reale stabilì “che i cittadini di
Porto e di Portauova fossero più degni del Popolo, ma inferiori
de’ Nobili di Nido, e di Capuana, e sono nominati dal Re,
Mediani cittadini”.
48) Scrive il Capecelatro “il
tumulto a fatica si posò con esservi accorso il Principe Ottone
marito della Regina e tutti i maggiori Baroni, che si
ritrovarono in Napoli” (F.Capecelatro, Origine..Op.cit.,p.128).
49) C. Torelli, Lo splendore
della nobiltà napoletana ascritta nei cinque seggi.Giuoco
d’arme, Napoli, 1678, p.14, ma ristampa Orsini de Marzo.
50) Nel 1291 esistevano due
sindaci per gli “affari pubblici”, di cui uno “milite” ed uno
“mercante”; nel 1300 la deputazione per le mura cittadine era
formata da cinque nobili e un cittadino; poi nel 1385 gli “Otto
del buon governo” furono sei nobili e due cittadini; nel 1400 la
Deputazione sotto re Ladislao si compose di sei nobili e due
cittadini; nel 1418 il governo pubblico sotto la regina Giovanna
II fu formato da dieci nobili e dieci cittadini; nel 1435 il
governo della città finì per essere di dieci nobili e sette
cittadini.
51) Secondo il Summonte (G. A.
Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, 1748,
L. I, p.251) era diffusa anche la consuetudine di accordare la
nobiltà materna ai discendenti, nati da padre non nobile.
Inoltre, sotto gli Angioini, l’educazione dei giovani nobili
era, comunque, importante tanto da essere seguiti da educatori.
Costoro avviavano la gioventù allo studio del diritto, seppur
ben presto si diffuse un modello di educazione
“umanista”(diritto, filosofia, arte del cavalcare, del
giostrare, della scherma), come testimoniò il giurisperito
Alessandro d’Alessandro nella sua insigne opera “Geniales Dies”.
L’aspirazione professionale, post-studio, rimase nei giovani
nobili, quella di diventare funzionario negli uffici reali.
52) L’ascrizione ai seggi di
Capuana e Nido richiedeva, ad esempio, avere “quattro parti di
nome e d’arme senza alcun ripezzo”, essere discendente legittimo
e senza vizi, mentre i capitoli del sedil di Montagna
prevedevano anche la possibilità di essere nobilitati dal re
seppur mercanti.
53) E. Pontieri, Alfonso il
Magnanimo Re di Napoli, 1435-1458, Napoli, 1975, p.50. Il re
“sedeva sopra un carro dorato, tirato da quattro destrieri e
preceduto da musici e tubicini; un baldacchino s’innalza sulla
sua persona regalmente vestita di una lunga tunica di velluto
cremisi foderato di martore calabresi e con nelle mani il globo
e lo scettro, simbolo della sovranità; lo seguivano i baroni del
Regno con alla testa Ferrante suo figlio, vescovi, patrizi,
cavalieri”.
54) Fu creato il tribunale della
Vicaria, cui spettò la decisione di ogni lite di diritto
feudale, nonché si occupò dell’amministrazione dei beni della
Corona ed il suo presidente fu il capo della polizia di Napoli.
55) E. Gothein, Op.cit.,p.46. In
epoca aragonese, il patriziato fu alquanto accorto
all’insegnamento educativo dei propri rampolli, facendoli
avvicinare “alla vita di corte, al divertimento raffinato e
mondano”. Il giovane nobile era solito essere seguito dal suo
educatore nello studio della musica, del canto e della danza (G.Vitale,
Op.cit., pp.40-45), oltre a saper “scivere bene”e “saper
cavalcare”. Il modello educativo si compose, quindi, di nuove
materie non rientranti negli schemi tradizionali d’insegnamento,
che privilegiavano i “rigorosi compiti di governo e le gloriose
gesta militari”. Comunque, si prediligeva l’insegnamento fisico,
legato alle tecniche del guerreggiare (combattimento a cavallo
con lancia e spada), che davano agli “equites” quella dignità
cavalleresca (cfr.A.Galateo, De Educatione, 1505).
56) Scrive il Summonte (G. A.
Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, Napoli, 1748,
p.15) “quei del popolo tumultarono, e fu costretto il re a
cavalcare per la città, per sedare il romore, et in pena del
tumulto, ne restò privo il Popolo della voce nel governo
pubblico”.
57) A. Mattei, Storia d’Isernia,
Napoli, 1978, Vol.II, pp.307-308. Nel 1531 il nuovo Vicerè,
Pompeo Colonna, richiese altri seicento mila ducati nel
Parlamento generale, nonostante le proteste dei deputati del
Popolo (S.De Renzi, Op.cit.,p.43).
58) Durante il viceregno si
diffusero modelli culturali selettivi sulle “buone maniere” (G.
Vitale, Op.cit., pp.52-99), secondo le costumanze
comportamentali della corte spagnola (servizio di tavola,
elaborazione di cibi e vivande esotiche, abbigliamento squisito,
il servire e prendere il cibo).In questi comportamenti
educativi,estremamente raffinati e lussuosi (cfr.D. Carafa,
Libro delli precepti,), si intravide una “tendenza al distacco
aristocratico da parte degli strati superiori”(G.Vitale, Op.
cit., p.56) che mantennero una spinta “fortemente selettiva nei
confronti dei ceti emergenti” e della nobiltà medio-piccola di
seggio. Il Galateo criticò questo modello educativo, perché
lasciò quello schema umanistico (basato sulla conoscenza delle
lettere, dell’addestramento fisico e delle armi) per altro
concentrato sul lignaggio apparente e mistificatorio. Si
diffuse, in questo periodo, il “dibattito sulla qualificazione
nobiliare connessa con la nascita o addirittura con l’ascrizione
a questo o a quel seggio”(G. Vitale, Op. cit., p.95). In merito,
il Marchese (F. E. Marchesii, Liber de neapolitanis familis ad
Hieronymum Carbonem, in Vindex neapolitanae nobilitatis Caroli
Borrelli, Napoli,1653) sottolineò come l’antico lignaggio delle
famiglie nobili di seggio doveva rimanere collegato ai fattori
della ricchezza e virtù.
59) L’ordine citava “no se
possiede intentar por mis Ministros actuales durante su
Ministerio, ni por sus Parientes Reintegraciones a estas Plazas”.
(Riflessioni intorno alla giustizia del divieto che hanno li
signori Ministri a poter dimandare reintegrazioni agli onori
delle Nobili Piazze Napoletane, Napoli, 1739, p.12).
60)
Il Capecelatro (Origine della città, Op. cit., p.147) scrive che
tale parlamento era “solito radunarsi ogni due anni” per
decidere “il solito dono al Re di due milioni di ducati”.
61)
Secondo il Capecelatro (Origine della città.., Op. cit., p.143)
gli eletti, detti capitani del Tribunale dell’Annona, con il
Prefetto dell’Annona nominavano il Grassiere, con il compito “di
fare, che le cose vadano per lo loro dritto sentiero, e andando
altrimenti, impedirle, e darne contezza al Re o al Capitan
Generale”. Gli eletti con il Grassiere, poi, potevano punire i
misfatti con varie pene, esclusa quella della morte.
62) cioè rango episcopale, con
relative insegne e facoltà; furono concessi dal XVII al XX
secolo con varie Bolle pontificie, l’ultima delle quali è la
Bolla Neapolitaane Civitatis Gloria di Papa Pio XI, in data 15
agosto 1927, che concede all’Ill.mo e Rev.mo mons. Tesoriere il
“titolo,dignità e privilegi del Protonotario apostolico ad
instar e il titolo di Abate della soppressa Badia di Mirabella
Eclano, con i privilegi degli Abati cassinesi” e agli Ill.mi e
Rev.mi Cappellani, durante munere, i privilegi di Prelati
domestici di Sua Santità.
63) L’Abate Tesoriere della
Cappella viene nominato con Breve apostolico dalla Santa Sede, a
cui risponde direttamente
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