
Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili
di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti
alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che
abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.
|
Quando il matrimonio era un “affare”
Le “complicate” nozze di don Giuseppe Benincasa
Le
trattative per trovargli una moglie riccamente dotata
durarono circa nove anni
e coinvolsero nobili, prelati e borghesi possidenti.
di Giovanni Greco
|
Fino a quasi metà del secolo scorso - quando le mutate
condizioni di vita e di costume non ne hanno decretato
la fine - era prassi tra le famiglie benestanti e
proprietarie assegnare alla donna che andava a marito
averi, denaro e sostanze, che dovevano contribuire a
sostenere i carichi matrimoniali. Questo complesso di
beni costituiva la dote (rota nel dialetto
sangiovannese).
Nell’Ottocento un matrimonio tra i rampolli delle
famiglie della medio-alta borghesia terriera era
soprattutto un accordo di carattere economico fra i capi
delle famiglie interessate, «un “affare”
di mera convenienza», teso ad accrescere e
potenziare l’asse patrimoniale ed a rafforzare il
prestigio del casato. Per la combinazione e la felice
conclusione di questi “affari” veniva attivata «tutta
una rete di parentele, di amicizie, di conoscenze, di
pronubi autorevoli», che avevano il compito di
seguire e portare avanti la trattativa, nella quale i
sentimenti reali dei diretti interessati contavano solo
marginalmente.
Nei primi decenni del ’900 l’usanza della rota fu
fatta propria anche dalle famiglie che avevano raggiunto
una dignitosa posizione economica con l’esercizio dei
mestieri e delle professioni e da quanti erano divenuti
piccoli possidenti attraverso l’acquisto di case, orti,
chjuse e vigne con il denaro risparmiato in anni
di duro lavoro e di grandi sacrifici nei campi, nelle
miniere, nelle imprese di costruzione e nei piccoli e
grandi agglomerati industriali degli Stati Uniti
d’America.
La rota costituiva un incentivo allettante e
persuasivo per “combinare” e portare in porto un
matrimonio. Così non di rado capitava che in qualche
unione i calcoli economici fossero prevalenti rispetto
ai sentimenti e che una ragazza bella e attraente, ma
senza dote, fosse “abbandonata” dal fidanzato per
un’altra meno graziosa e prestante, ma riccamente
dotata. I protagonisti di queste vicende diventavano
oggetto del chiacchiericcio e dei “velenosi”
pettegolezzi delle donne e si attiravano pure gli
strali dei mordaci compositori di frassie in
occasione del carnevale.
Recitava un celebre detto popolare: «Chi ppé’ lla
rota ’a bbrutta se piglia, ’a vita si nne vari e llu
core se squàgliari» (chi sposa una donna brutta per
interesse, è un uomo distrutto).
In un bel libretto edito da Rubbettino nel 2002 - Le
nozze di donna Michelina.“Affari matrimoniali” nella
Calabria dell’800 - Francesco
Martucci, erede per parte materna della
famiglia Benincasa, ci ha raccontato le vicende
matrimoniali che per più di un secolo hanno interessato
i suoi avi, ricavandole dalle Carte di famiglia,
cioè le lettere scritte nelle fasi di conduzione della
trattative e le pattuizioni o Capitoli, che
venivano stesi quando gli ”affari” erano ormai arrivati
a conclusione. Francesco Benincasa (1781
†
1843) - dottore in legge, proprietario galantuomo,
membro dell’alta borghesia terriera di
Calabria Citra - nei primi decenni
dell’Ottocento era certamente il notabile più noto e
influente della città silana per gli importanti e
numerosi incarichi pubblici ricoperti. Nel periodo
difficile dell’occupazione francese e della lotta al
brigantaggio la famiglia Benincasa, oltre ad incorrere «in
qualche errore nella gestione dei beni di famiglia»,
era andata anche incontro a qualche traversia economica.
Pertanto don Francesco, appena il primogenito
Giuseppe (1805
†
1874) raggiunse l’età di 21 anni, pensò di “combinare”
per lui un matrimonio di sostanza, cioè di realizzare un
“affare” che portasse in dote «una somma consistente,
in contanti, e prontamente spendibile» per risanare
e rilanciare l’economia familiare.
Per prima pose gli occhi sulla quindicenne Serafina
Lopez, appartenente ad un’altra nota e ricca
famiglia sangiovannese. Nella primavera del 1826 mandò i
suoi emissari dai Lopez e ne ricevette risposta
positiva. Le trattative presero subito una piega
incoraggiante, tanto che qualche mese dopo stilò
l’elenco delle spese necessarie per le nozze e comunicò
il «concluso matrimonio» a parenti e amici, come
i principi
Giannuzzi-Savelli e il barone
Mollo
di Cosenza, che mandarono lettere di felicitazioni.
“L’affare” non si concluse, forse perché don Francesco
nelle fasi di stesura del “contratto” dovette eccedere
nelle pretese. Il 14 novembre dello stesso anno il
fratello maggiore della promessa sposa Paolo Antonio
Lopez gli scrisse una garbata lettera dalla tenuta del
Bordò o Vurdoj, con la quale comunicò la
decisione della famiglia «di ritirarsi dall’affare
del matrimonio».
Intenzionato a conseguire l’obiettivo di un buon “affare
matrimoniale”, nei primi mesi del 1827 don Francesco si
rivolse al vescovo di Cariati Gelasio, pregandolo di
intavolare una trattativa con Leonardo De Mundo,
facoltoso proprietario galantuomo di Calopezzati, che
aveva quattro figlie destinatarie di una ricca dote. Il
presule ne parlò subito con il De Mundo e in occasione
della Fiera di Ronza a Campana ottenne la
disponibilità alla trattativa, insieme con la
raccomandazione di procedere con la necessaria prudenza
e senza eccessiva fretta. Temendo che “l’affare” potesse
sfumare, don Francesco cercò di stimolare ulteriori
interventi del vescovo con una «abbondante rimessa di
rari frutti, ottimo vino, salati, preziosi prosciutti e
butiri». Ma il De Mundo continuò a prendere tempo e
tergiversare, supportato in questo dalle indecisioni
della figlia da maritare, la primogenita Ernestina, che
manifestò al padre l’intenzione di «volersi monacare».
La trattativa si arenò, don Leonardo si ammalò e poi
morì, lasciando le figlie sotto la tutela dello zio don
Egidio e con una cospicua eredità in dote.
Nel maggio del 1829 i Benincasa ritornarono alla carica
con don Rosalbo, fratello di don Francesco, che prima
contattò e poi incontrò alla Fiera di Ronza un
influente cittadino di Calopezzati suo amico, Gaspare
Apa, incaricandolo di riprendere la trattativa
interrotta e di chiedere la mano di una delle altre tre
sorelle. Don Egidio diede il suo assenso, consigliò
nuovamente Ernestina, che non si era fatta monaca,
promise una dote in denaro di 7.000 ducati pagabili in
rate dilazionate e chiese per sé una regalia. I
Benincasa si dichiararono prontamente d’accordo, ma la
situazione si complicò, perché i De Mundo poco tempo
dopo fecero sapere che la dote non sarebbe stata più
devoluta in denaro, bensì con un assegno in beni
fondiari per un valore di 10-12.000 ducati. La nuova
proposta convinse poco don Francesco, che contava molto
sul contante per poter ripianare e investire. Dopo aver
interpellato il suo avvocato di fiducia Ignazio Larussa
di Catanzaro, attraverso una corrispondenza con l’Apa e
un certo Biagio Bianco - un sangiovannese residente a
Calopezzati amico di entrambe le famiglie - cercò di
conoscere l’effettiva entità della dote, il valore
attribuito ai fondi, la loro ubicazione, fertilità e
produttività e, soprattutto, chiese che «la
sistemazione dotale avvenisse prima del matrimonio».
I De Mundo si dichiararono di opposto parere, la
trattativa si impantanò e «l’affare andò a monte».
Per nulla scoraggiato, nel 1833 don Francesco, allora
anche Giudice di Pace del Circondario di Umbriatico,
incaricò il Decano e suo collaboratore don Francesco
Pugliese «di combinare un matrimonio per il figlio
con la principale famiglia di quel capoluogo: i Baroni
Giuranna», che risposero favorevolmente, fissando
una dote di 3.500 ducati da pagare in tre rate e in un
anno. Anche questo tentativo non si concretizzò, forse
perché l’ammontare della dote non corrispondeva alle «pretese-attese
dei Benincasa» o, presumibilmente, perché in
occasione del «vicendevole incontro» tra i due
promessi sposi venne a mancare il «reciproco
gradimento».
Nella primavera del 1835, «dopo aver speso circa nove
anni nel perseguire un buon “affare matrimoniale”»,
i Benincasa ritornarono nuovamente dai Lopez. Giuseppe
aveva ora trent’anni e Serafina venticinque. L’11 maggio
di quell’anno nel Casino del Bordò fu stilato davanti a
un notaio l’atto con il quale i due giovani «promettono
di unirsi in matrimonio, e celebrarlo nello spazio di
due mesi». L’entità della dote - 5.000 ducati -
soddisfece i Benincasa, l’unione si rivelò ben riuscita
e fu arricchita dall’arrivo di otto figli. |
Il
nuovo Corriere della
Sila n. 8/agosto 2006 |

San Giovanni in Fiore,
primi decenni del Novecento, mercato. |
La cappella del SS. Sacramento o di S. Francesco Saverio |
La cappella posta in fondo alla navata settentrionale è
dedicata da anni lontani al SS. Sacramento. Nella
nicchia sopra l’altare c’è la statua di san Francesco
Saverio e le pareti sono adorne di dipinti a olio con
immagini dell’Apostolo delle Indie e di altri santi
gesuiti.
Da atti notarili del notaio
sangiovannese Vito Antonio Alessio apprendiamo che il 22
giugno 1738 il sindaco Giovan Battista Foglia, gli
eletti e la cittadinanza, «congregati in pubblico
Parlamento al suono della campana», «essendo nella
chiesa parrocchiale di questa Terra fondata la Cappella
del Gloriosissimo Santo Francesco Saverio», approvarono
la proposta di proclamarlo protettore e compatrono del
paese «per i tanti miracoli fatti», per «aver liberato
tanti oppressi», ma anche per «aver esentato questa
nostra Patria e i suoi devoti cittadini da tanti mali».
Si decise anche di dedicargli una statua e di celebrarne
il 3 dicembre di ogni anno solennemente la festa,
offrendogli in voto «dieci libbre di cera». Il giorno
dopo, sempre davanti allo stesso notaio, fu sottoscritto
l’impegno a mettere in atto la volontà popolare, che
sarà ancora ribadita nel maggio 1740.
L’iniziativa fu
probabilmente presa nello spirito di emulazione che
animava il clero secolare e l’amministrazione cittadina
nei confronti della chiesa abbaziale, dove si svolgevano
la festa del patrono san Giovanni Battista e la
cerimonia del giuramento di fedeltà all’Immacolata l’8
dicembre.
Tra le famiglie di notabili
del tempo si distinse per «grande devozione contratta
verso il santo gesuita» quella dei Benincasa. Nel
testamento, rogato dal già citato notaio Alessio il 4
dicembre 1737, il capo del casato Domenico
costituì «un legato d’un capitale di 150 ducati» per la
celebrazione di 100 messe annue sull’altare della
cappella del santo missionario. E, quando dall’assemblea
cittadina fu presa la decisione di comprare a Napoli la
statua, offrì personalmente 50 ducati.
Dopo la morte di Domenico
nel 1740, i figli Rosalbo e Pasquale
seguirono la condotta del padre e con atto dello stesso
notaio del 4 aprile 1747 dotarono la cappella di 16
ducati e 50 carlini annui per l’ordinaria manutenzione e
per la celebrazione di messe da parte di un cappellano
«scelto a loro piacimento». S’impegnarono anche a
«contribuire alla perfezione della Cappella» per poi
trasferirvi la statua e, inoltre, nel 1750 fecero
domanda alla Curia diocesana di avere sulla stessa lo
jus patronatus da gestire attraverso una
confraternita, di potervi trasferire la tomba del padre
Domenico e di tumularvi i defunti della famiglia e della
confraternita.
La richiesta di acquisire lo
jus patronatus, non dovette, però, piacere agli
amministratori della città e alla popolazione, che si
appellarono all’autorità diocesana e, dopo aver
ricordato che il santo era stato proclamato compatrono
«per li tanti miracoli e grazie» fatti e per la «pura
devozione di tutto il popolo» e che gli si stava
approntando «una bellissima cappella sfondata», chiesero
che la domanda avanzata dai Benincasa non fosse accolta,
per evitare che costoro avessero un rapporto più diretto
con il santo e che la devozione del popolo potesse per
questo motivo scemare. Il beneficio, con acclusa anche
l’autorizzazione ad essere tumulati nella cappella, fu
comunque concesso in calce alla supplica presentata il
25 giugno 1755 dall’arcivescovo di Cosenza Michele Maria
Capece Galeota (1748-1764) in occasione della
visita pastorale nella città florense.
Nel frattempo Rosalbo
Benincasa, che dall’abate Innico fra Martino
Carracciolo era stato incaricato di
interessarsi dei lavori di ampliamento, riparazione e
ammodernamento della chiesa parrocchiale, si preoccupò
di portare avanti anche la costruzione e l’arredamento
della cappella. Nel marzo 1751 stipulò un contratto con
il «mastro marmoraro» napoletano Antonio di Lucca, il
quale s’impegnava «a fare in tre mesi un altare di marmo
di palmi dodici e mezzo di fuora a fuora» con ai lati
due lapidi di sepoltura per una somma complessiva di 176
ducati e mezzo, comprensiva anche delle spese di imballo
e trasporto fino al porto di Napoli. Le spese d'imbarco
e trasporto fino a Crotone e da qui a San Giovanni in
Fiore e i costi di messa in opera erano, invece, a
carico del committente.
I lavori della chiesa, come
sappiamo, subirono una sospensione e, quando furono
fatti riprendere dall’abate commendatario
Filomarino, anche la cappella di san
Francesco Saverio fu portata a termine. Il culto del
santo restò molto vivo per tutta la fine del Settecento
e parte dell’Ottocento, poi cominciò lentamente ad
affievolirsi. La cappella prese ad essere sempre più
comunemente chiamata con il nome del SS. Sacramento e
così pure il procuratore incaricato di gestire i beni, i
lasciti e le entrate della stessa, che erano cospicui.
Chiusa da una cancellata in
ferro battuto con borchie, pomelli e giunti torniti, la
cappella (m. 8,35 x 6,85 x 8 h) prende luce da un
finestrone curvilineo con gli angoli fortemente lobati,
ha la copertura a forma di cupola ed ha un’abbondante
decorazione di stucchi sulle pareti e sulla volta.
L’altare marmoreo (m. 3,20 x 1,30 x 1,90 h), anche se
meno elaborato di quello maggiore, è molto e ricco di
decori e intarsi multicolori. Il paliotto ha al centro
una croce gigliata e raggiata racchiusa in uno stemma
tra girali di fiori e sui frontalini laterali è
riprodotto lo stemma dei Benincasa. |
L’altare di S. Antonio da Padova nella chiesa dei
Cappuccini |

San Giovanni in Fiore, Chiesa dei Cappuccini, cimasa
dell'altare di S. Antonio, stemma Benincasa |
La navata laterale [della chiesa dei Cappuccini] è lunga
m. 20,70, larga m. 5,18, alta m. 6,40 e comunica con
quella centrale e il presbiterio attraverso quattro
arcate a tutto sesto. Come già detto, ha subito nel
tempo diverse modifiche, che sono state determinate
soprattutto dalla necessità di allargare lo spazio a
servizio dei fedeli. Attualmente è costituita da un
atrio che ha comunemente le funzioni di accesso alla
chiesa e da un’area più vasta arredata come la navata
centrale con panche, moderne sedie e un harmonium.
Sulla parete di fondo della navata c’è l’altare di S.
Antonio da Padova, alto circa m. 5 e largo m. 2,70,
spostatovi dopo gli ultimi lavori che hanno interessato
la chiesa e composto da due parti distinte. In basso si
distende la base con una mensa molto ridotta, realizzata
nel 1989 in noce locale dal maestro Giuseppe Marra
Chjcu in sostituzione della vecchia struttura
rovinata da un incendio causato dai “lumini”. E’ ricca
di cornici scalpellate e di intagli, sulla porticina del
tabernacolo è scolpita a rilievo una pisside con l’ostia
e in un ovale sul paliotto è riportato a rilievo lo
stemma francescano con il braccio di Gesù e quello di
san Francesco incrociati. In alto è posto l’antico
fastigio, realizzato agli inizi della seconda metà del
Settecento in linea con i dettami francescani da frati
artisti, coadiuvati da maestranze locali. E’ in legno
sontuosamente intagliato e tornito, ricco di motivi
floreali, con colonne a torciglione e infiorate,
tinteggiato a noce nel colore marrone scuro tipico del
saio francescano e recante sul fregio tre bianche
protomi d’angeli. I bordi del coperchio della nicchia
sono finemente incisi, la nicchia (h m 1,60) ospita una
bella statua in legno del santo taumaturgo (h m. 1,40),
che ha il volto giovanile e imberbe, nella mano destra
un grosso tomo per ricordarne la grande cultura
teologica e il titolo di “dottore della Chiesa” e in
quella sinistra un giglio argentato a ricordarne la
purezza di vita. Sul libro sta in piedi un grazioso Gesù
Bambino benedicente con un piccolo globo verde-azzurro
crociato in una manina. Nella cimasa, tra decori
intagliati e un po’ malandati, lo stemma del casato dei
Benincasa, alla cui devozione è dovuto l’altare. |
Ringraziamo il prof. Giovanni Greco che ha voluto
condividere questo suo articolo e le ricerche
sugli altari appartenuti alla famiglia Benincasa. |
|